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“Circo Massimo Mistery”, un viaggio nelle profondità della danza

Le Supplici_Hood

Dal 24 al 26 novembre è andata in scena al Teatro Duse la prima tranche di appuntamenti, denominata Mistery, del progetto artistico Circo Massimo, ideato e curato dal coreografo Fabrizio Favale. Per la prima serata il palco è a completa disposizione degli spettatori, seduti in cerchio sulla scena scarna d’attrezzeria. Un mucchietto di lattine di birra fa immediatamente collocare l’azione alla società del giorno d’oggi, ubriaca di cupezze e infelicità.

La voce in cuffia del coreografo Michele Di Stefano, però, chiarisce, con le note di regia di Giuda, che la pièce racconterà una storia senza tempo, quella cioè di una figura biblica e antropologica destinata a essere perennemente sola.

Ed ecco che entra in scena Biagio Caravano: abbigliamento insolito (polo, shorts, gambaletti e mocassini), aria spavalda. Non gliene importa nulla di chi gli sta intorno: sputa pezzetti di chewing gum, schizza schiuma di birra dappertutto, finge di essere una rockstar, strizza un panno zuppo d’acqua sul tappetto di linoleum e ci danza sopra, cercando volontariamente di scivolare per terra. S’illude di essere unico, speciale; ma il suo stesso Destino lo mette in ginocchio, privandolo della propria umanità, rattrappita in una posa larvale (forse) unico escamotage di espiazione delle colpe.

Il pubblico assiste a questo scenario nel sottofondo di rumori confusi e a volte stridenti, di voci sovrapposte, di suoni naturali a dir poco inquietanti: è l’anima nera e tormentata di Giuda che disegna questo paesaggio sonoro, fino a quando il cronometro digitale – nell’angolo opposto al fulcro dell’azione – mette fine alla performance precisamente al 33° minuto.

La situazione cambia radicalmente quando Daniele Bianco, uno dei quattro ballerini di 12 Tónar, entra in scena e “misura” gli spazi, dando forma a sculture di movimento fluenti da un capo all’altro del palcoscenico. Questo “benvenuto” al pubblico è solo un assaggio dell’intricata sequela di movimenti avvinghianti, di développé da capogiro, di linee sinuose delle braccia che sembrano quasi volersi avvitare nell’aria, fino ad esplodere in profondi cambré en arrière. Il tutto tra le note bassissime di un sintonizzatore, alternate a flebili campanelli, sui cui tintinnii vibrano le membra di Francesco Leone, un altro componente de Le Supplici, la compagnia di Favale.

L’eleganza degli assoli e la vertiginosa fusione dei corpi nei pas de quatre suggeriscono appieno l’atmosfera del locale islandese omonimo della pièce, dove ognuno è accolto per quel che è, per la sua identità, per il suo mistero: “Life is a mystery. Everyone must stand alone. I hear you call my name. And it feels like home”, queste le parole di Madonna, prese in prestito da Leone per salutare gli spettatori sorpresi e deliziati.

Seconda serata, secondo tripudio di emozioni. Lo spazio è sempre lo stesso, ma al solista di Cosmopolitan Beauty non basta: dopo un incipit irrequieto, in cui Davide Valrosso palesa le eccellenti doti tecniche, l’attenzione si sposta in platea, dove le poltrone divengono supporti, tappeti su cui rotolare o gradini da scalare.

Questo corpo sinuoso, elastico, coperto solo da una t-shirt e un paio di slip, appartiene per 30 minuti a una creatura cangiante, a metà strada tra Uomo e Natura, a una bellezza tanto potente e risoluta quanto fragile e tormentata. La sua danza è acrobatica, sospesa, scivolante di qua di là; e seppur – di certo – improvvisata per la maggior parte, soprattutto in ogni posa a diretto contatto col pubblico, la sua storia è chiara: un processo evolutivo oscillante tra gli istinti primordiali e le geometrie dell’arte tersicorea. La musica incornicia il quadro perfettamente, mixando le dure vibrazioni dell’elettronica alla solennità dell’organo, sottofondo sfumato fino al silenzio per lasciar spazio ad una combinazione di salti e giri ossessivamente ripetuta fino all’uscita di scena.

A questo punto, una sorpresa rispetto al programma di sala: non uno, bensì due lavori di Favale, Un ricamo fatto sul nulla (ormai nel repertorio della compagnia) e Hood (in anteprima per Circo Massimo). Nel primo caso, tre uomini – i già citati Bianco e Leone con Vincenzo Cappuccio – sembrano “tessere” una storia che non si può raccontare a parole, dimenando vorticosamente le braccia in ogni direzione alla smaniata ricerca di un contatto, di un incastro o anche solo di una pausa, anch’essa utile a scoprire qualcosa in più.

La mollezza dei corpi è disarmante, tanto quanto la raffinatezza dei fronzoli e ghirigori che le mani compongono nello spazio. Il filo, però, si deve spezzare: prima o poi il ricamo deve terminare, per poterne apprezzare il meraviglioso intreccio.

Hood è un dialogo bifronte muto, un botta e risposta a suon di ondeggiamenti del busto, sbilanciamenti, evoluzioni con la testa e sguardi. Molti sguardi, intensi, eloquenti. Negli occhi di Bianco e Cappuccio si leggerebbe tutto, anche se per quei pochi minuti rimanessero immobili. La paura di donarsi pienamente è tangibile, la dolcezza del tentativo impagabile.

Si giunge, così, alla terza serata, last but not least. L’ouverture è affidata a Marina Giovannini, ballerina, coreografa e performer di fama internazionale, che decide di offrire al pubblico di Mistery non un “duetto” (come da programma), bensì un assolo: Dentro. La curiosità è spontanea: dentro cosa? Uno spazio? Una persona? Se stessi? Francamente, non importa.

Fasci di luce, proiettati sul palco in forma quadrata o circolare, soffusi o ben nitidi, accolgono la danza scomposta, interrotta, scaglionata dell’artista, inebriando l’aria di un’atmosfera intima e donando senso all’azione scenica. È una lotta contro la gravità, un’attrazione calamitica verso il suolo, a cui Giovannini cede solo in un istante. Eppure l’interiorità del suo essere non accenna ad alcun mutamento e, anzi, continua imperterrita a inghiottire gli spettatori in un “dentro” in cui è davvero difficile non perdersi.

Seguono Le Supplici col secondo spettacolo di Favale in anteprima sul cartellone del progetto: Narvalo. Un contesto più esotico richiamante la mitologia greca, una miscela esplosiva di elementi puri: follia, rabbia, eroicità, morte, sesso. Il tutto nelle linee infinitamente allungate del corpo di Bianco, nell’intensa espressività di Leone e Cappuccio, nei magistrali virtuosismi di Valrosso.

L’intera performance è certosinamente strutturata per andare controcorrente, proprio come il cetaceo a cui è dedicato il titolo, a dimostrazione di quanto volubile e poco predefinibile sia la natura umana. Favale vuole mostrare – e ci riesce molto bene – che la ratio dell’Uomo non può sempre soverchiarne l’istinto: il saluto finale è la parola CIRCE, suggellata col pennarello sulla schiena di tutti e quattro i danzatori.

L’esibizione conclusiva dell’intera tranche di appuntamenti vede in scena proprio il “padrone di casa” e Daniela Cattivelli, artefici del terzo lavoro in anteprima, Fort Apache. Niente danza, se non per un piccolo frangente finale da parte dell’artista laziale; comunque, una coreografia di suoni, luci, elementi naturali, dal vivo o preregistrati. Impossibile non chiudere gli occhi per un istante e abbandonarsi all’immaginazione. Anche in quest’occasione il genio creativo si è saputo affermare nella sua pienezza.

Marco Argentina

www.giornaledelladanza.com

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