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Dalla danza classica alle tecniche Yoga: intervista ad Ambra Vallo

Ambra Vallo

Ambra Vallo nasce a Napoli e si diploma in Belgio al “Ballet Royal des Flandres”. Ha vinto numerosi premi e concorsi internazionali di danza (Primo premio, “Luxemburg International Grand Prix”; Medaglia d’argento, Houlgate, Francia); in Italia, “Danza e danza” (Migliore ballerina, 2004), “Positano” (Premi della critica, 1991 e 2002), “Rieti” (Medaglia d’oro). A soli diciotto anni è stata invitata da Vladimir Vassiliev come ospite dal Teatro dell’Opera di Roma, inaugurando la stagione di balletto e le sono state consegnate le chiavi del Teatro. Già prima ballerina a diciassette anni dell’“Opéra Royal of Wallonie” e, subito dopo, del “Ballet Royal des Flandres”, è stata dal 1993 “Senior Soloist” e poi prima ballerina dell’English National Ballet, dove ha danzato Giulietta nella versione di Rudolf Nureyev. Ha ballato al Metropolitan Opera House New York di cui è stata l’étoile in una rara ricostruzione dei balletti di Frederick Ashton. È dal 2001 la più nota “Principal” (prima ballerina) del Royal Ballet con sede a Birmingham. Alla sua prima interpretazione di Giulietta ebbe l’onore di essere nominata in palcoscenico Prima Ballerina ricevendo i complimenti personali da Lady Diana presente in sala. Molto amata dal pubblico inglese: è stata definita “diamond” dal Times (Debra Crain) e “First Class Ballerina” da “The Stage” (Emma Manning). Indicata tra i mille personaggi più famosi del Regno Unito per eccezionali meriti artistici, culturali, scientifici o politici dal “Debrett’s people of today”. All’Expo 2005, in Giappone, ha rappresentato l’Italia insieme a Roberto Bolle. Nel 2009 ha ricevuto al Teatro San Carlo di Napoli, insieme a Gianluigi Aponte, Fabio Cannavaro e ad altri “napoletani eccellenti nel mondo” il relativo premio dell’Unione industriali di Napoli dalle mani del Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. “Dancing Times”, la principale rivista britannica di danza, le ha dedicato la copertina nel dicembre 2010. Attualmente è un’affermata docente di yoga, richiesta per master dall’Indonesia agli Stati Uniti.

Gentile signora Ambra, come e quando è scoccato l’amore per la danza?
Un corpo naturalmente agile e flessuoso e un’indole portata all’immaginazione mi fecero notare sin dall’asilo da una giovane maestra di danza che insegnava all’istituto di suore francesi che allora frequentavo a Napoli. Mi volle assolutamente alle sue lezioni. Ricordo che curava molto l’espressività. La cosa mi piacque moltissimo e quelle diventarono le mie ore preferite. Ricordo benissimo il mio primo assolo: una piccola olandesina che raccoglieva dei tulipani, disposti a cerchio sul palcoscenico e, per ogni fiore colto, faceva una piroette. Naturalmente avevo imparato le parti di tutti, ma soprattutto, ero affascinata dalla magia del palcoscenico e della musica. Io così piccola e timida, là mi sentivo completamente a mio agio! Volevo assolutamente continuare e così, passo in seguito a una vera e propria scuola, dove ho il primo impatto con la dura disciplina e le rigide regole della tecnica accademica di matrice sovietica (metodo Vaganova). Capisco che lo studio della danza è lungo e difficile, ma, nonostante questo, non demordo, studiando di notte le materie scolastiche e divorando tutti i video di danza che riuscivo a recuperare.

Quali sono i suoi primissimi ricordi legati all’arte coreutica?
Scalpitavo, ero impaziente, mi ero accorta che nella danza il tempo scorre in fretta, che c’erano tante cose da imparare, da vedere, da sperimentare. Così sembrò un segno del destino la vincita al primo anno di corso, di una borsa di studio a Venezia, sull’isola di San Giorgio, con famosi maestri internazionali. Si aprì davanti ai miei occhi un mondo tutto nuovo e fantastico, pieno di opportunità e apprendimenti! Tra i maestri c’era anche un’étoile del Ballet du XXme siecle che mi consigliò una prestigiosa scuola di Anversa, nelle Fiandre, proprio il tipo di scuola che desideravo frequentare. Feci l’audizione e fui ammessa. La scuola, diretta dalle sorelle Brabants, aveva maestri di livello internazionale (Maria Metchkarova, Tom Van Cauwenberg, Janine Van Boven…) e prevedeva, a differenza delle scuole italiane, sia lo studio delle materie tradizionali che lo studio della danza in tutte le sue declinazioni (classica, moderna, contemporanea). Il programma spaziava dalle lingue alla storia, dalla musica alla pantomima, dal teatro e alla letteratura al trucco di scena, dall’invenzione coreografica alla storia del balletto, dallo studio delle varie tecniche e degli stili del balletto alla preparazione ai concorsi. Era tutto “bello” ma era lontano da casa, non conoscevo nessuno, la lingua era quella fiamminga e nel weekend gli altri alunni tornavano a casa e io rimanevo sola nel college! Sono stati momenti veramente difficili ma l’amore per la danza è stato più forte di tutto.

Prima di accedere al “Ballet Royal des Flandres” ha frequentato altre istituzioni?
Frequentavo ancora la scuola quando una delle mie insegnanti, Janine Van Boven, ballerina del “Balletto del XX secolo ”, appena nominata direttrice dell’Opéra Royal de Vallonie, con sede a Liegi, mi chiamò come prima ballerina, creando su di me una straordinaria “Cendrillon” piena di virtuosismi. Fu la prima grande esperienza in un ruolo principale. Janine fu anche una preziosa maestra (Diana e Acteone, Giselle, Guerra e pace di V. Panov, Le Corsaire, Esmeralda…) per importanti concorsi internazionali.

Che anni sono stati quelli al “Ballet Royal des Flandres”? Come li ricorda da un punto di vista umano e formativo’?
Sono entrata nel “Ballet Royal des Flandres” subito dopo la vittoria al Concorso Internazionale di Lussemburgo. Il Presidente del Concorso, Robert Denvers, che era anche direttore al Ballet Royal des Flandres, mi volle nella sua prestigiosa compagnia ad Anversa. Qui mi specializzai nello stile Balanchine pieno di dinamismo e virtuosità ad alto livello. Per me fu una grande opportunità poiché era un’assoluta novità nel panorama della danza europea. Robert Denvers, infatti, era maestro al “New York City Ballet”, all’“American Ballet” e alla “Melissa Hayden Ballet School” e i più grandi nomi del mondo del balletto hanno seguito le sue lezioni, come Barishnikov, Makarova, Nureyev. C’era anche una maestra cubana molto brava dell’Accademia di Alicia Alonzo dell’Havana, Menia Martinez che curava le coreografie classiche.

È ancora vivo in lei il giorno del Diploma? Che emozioni le suscita il ricordo?
Lo ricordo con molta emozione e soddisfazione: ero molto giovane e presi una decisione importante. Nella scuola, nell’ultimo trimestre, c’erano prima gli esami finali dei singoli insegnamenti con una giuria di professori e, poi, il saggio finale con la ripresa di un intero balletto nel grande teatro interno della scuola. I vari ruoli, naturalmente, erano assegnati in base alla valutazione totale dei singoli insegnamenti e c’era molta tensione e preoccupazione, gli allievi della scuola erano tutti bravissimi ed era una scelta molto difficile. Quell’anno si allestiva “La fille mal gardée” con coreografia di Aimé De Lignière direttore artistico della scuola e, quando con l’approvazione unanime di tutti i professori, il ruolo di “Lisa” fu assegnato a me che venivo da fuori, ero incredula, entusiasta e impaurita nello stesso tempo. A me, però, le sfide sono sempre piaciute e mi gettai a capofitto nello studio del personaggio e delle difficoltà tecniche della coreografia. La sera del debutto ero molto emozionata ma appena salii sul palcoscenico ogni timore scomparve, ero solo felice di ballare, di dare e ricevere emozioni. Mi è sempre piaciuto raccontare delle storie e coinvolgere il pubblico. Quella era la mia vita! Avevo scelto.

Già prima ballerina all’Opera Royal de Wallonie e al Ballet Royal des Flandres. Tra tutte le serate condivise con queste prestigiose realtà tra spettacoli, prove, colleghi, incontri, direttori, ammiratori cosa le piacerebbe far rivivere per i nostri lettori.
Ricordo con grande piacere ed emozione l’attività frenetica che ha accompagnato la mia partecipazione al Concorso di Varna. Fu chiesto l’intervento del Ministro della Cultura, del Borgomastro della città. La Direttrice dell’Opera Janine Van Boven chiamò per la preparazione prestigiosi ballerini del Ballet du XXme Siècle, organizzò un Gala, che registrò una straordinaria presenza di pubblico, il cui incasso fu utilizzato per sostenere le spese di partecipazione al Concorso. Fummo intervistati dalla TV nazionale e, alla partenza, ci accompagnò un tifo da stadio! Essere finalista, così giovane e nonostante la presenza di ballerini di grande fama ed esperienza, fu per me motivo di grandissima gratificazione.

In quale balletto danzò per l’inaugurazione al Teatro dell’Opera di Roma e come fu accolta?
Appena vinto il Concorso Internazionale di Rieti che aveva come Presidente della Giuria Vladimir Vassiliev, insieme, tra gli altri, a Ekaterina Maximova e Zarko Prebil, fui invitata ad inaugurare la stagione di balletto del Teatro dell’Opera di Roma con il “Don Chisciotte” di Gorski-Petipa, costumi di Benois, nel ruolo di Kitri. Non avevo mai ballato questo ruolo da preparare peraltro in pochissimo tempo. Era un impegno da far tremare i polsi ma con il magnifico rapporto professionale creatosi con il Maestro Zarko Prebil, i sapienti suoi suggerimenti e la sua assoluta dedizione a quella che definiva “talentuosa” con il suo simpatico accento russo ottenni uno strepitoso successo di pubblico e di critica.

Un suo ritratto del maestro Vassiliev?
Ho avuto modo di conoscere il maestro Vladimir Vassiliev, in occasione del Concorso di Rieti. Era lì come presidente della giuria, insieme con la moglie, Ekaterina Maximova, due icone della danza! Mi colpì molto il carisma e la sua presenza scenica in un passo a due, di sua nuovissima creazione che fece insieme alla moglie, al teatro di Rieti, dove si svolgeva il concorso. Ricordo che era molto attento alla tradizione della scuola russa del Bolscioi, ma contemporaneamente, non era insensibile ad istanze più moderne. Io portavo un “a solo” di Balanchine su una partitura di Ciaivkosky pas de deux, molto veloce ed elettrizzante, con impetuosi jetées, triple piroettese ed impeccabili aplombe. Era una novità per il pubblico italiano e gli spettatori in platea e nei palchi, in piedi, scandivano il mio nome, chiedendo a gran voce il bis! Io e il direttore artistico, dietro le quinte, non sapevamo che fare: era un concorso, non si poteva concedere un bis. Improvvisamente, vedemmo arrivare tutto trafelato Vassiliev, che aveva lasciato precipitosamente la sua poltrona in prima fila in platea, dove era insieme agli altri componenti della giuria. Mi prese per mano e mi spinse letteralmente sul palcoscenico!

All’English National Ballet ha danzato alcuni pezzi dei più famosi coreografi. Quali le difficoltà tecniche e psicologiche per accostarsi a così tanti personaggi?
Dopo Roma sono chiamata a Londra, all’“English National Ballet” dal direttore artistico Derek Deane, che mi aveva notato nel ruolo di Kitri, nel “Don Chisciotte”, al Teatro dell’Opera di Roma. Qui, naturalmente lo stile è diverso, è quello inglese (Ninette de Valois, Frederick Ashton) e, secondo i dettami della sua fondatrice, vuole unire la grazia del balletto di scuola francese con la fisicità di matrice russa. È quindi rigoroso e richiede massima cura nei dettagli. La compagnia è formata da giovanissimi ballerini provenienti da concorsi di tutto il mondo, con maestri tutti ex ballerini del Royal Ballet, la supervisione di Natalia Markova, ma ci sono pure importanti coreografi moderni. I ritmi di lavoro sono intensi, con numerosi spettacoli all’anno e in stili differenti. È stata però un’esperienza professionale importante e di grande spessore. Ritengo che il confronto ad alti livelli, anche se stressante, presenta dei lati positivi come forgiare il carattere, insegnare a trasformare i lati negativi in stimoli per migliorare, per perfezionarsi per confrontarsi con altri stili di danza, aggiornarsi sulle novità.

Ha conosciuto personalmente Nureyev? Quando venne nominata Senior Soloist, cioè, Prima ballerina all’English National Ballet, questa nomina avvenne in palcoscenico. Mi racconta questa magica serata?
Purtroppo non ho avuto la fortuna di conoscere personalmente il maestro Nureyev, ma ho avuto la fortuna di essere scelta a ballare “Giulietta” nella sua coreografia, proprio la sera della prima, quando sono stata promossa Prima ballerina. Il carattere che voleva Nureyev era quello di una Giulietta forte e determinata. Venne un suo stretto collaboratore da Parigi, un ex ballerino dell’Opera che ci dette molti preziosi suggerimenti. “Non devi fare Giulietta” mi disse “devi essere Giulietta!” Era una coreografia complessa con passi assai difficili, pervasa di erotismo e di liricità, sparkling e poetica al tempo stesso. Il focus è sul carattere di Giulietta, volitiva e forte, un’antesignana per i suoi tempi. Quella serata è stata veramente magica, un momento straordinario ed emozionante: era la prima volta che danzavo Giulietta, il sogno di tutte le giovani ballerine, facevo la difficilissima coreografia di Nureyev, la facevo a Londra, il tempio della danza accademica di eccellenza e del “Royal Ballet”, dove ci sono critici esigentissimi che possono stroncare una carriera con una sola parola e c’è un pubblico molto competente ed esigente. Alla fine della Prima, tra gli applausi scroscianti del pubblico e la commozione generale, vengo nominata Prima ballerina sul campo, cioè sul palcoscenico e Lady Diana, presente in sala, anche lei commossa, viene nel mio camerino a congratularsi. E, rivolgendosi ai miei che erano lì presenti, esclama: “Dovete essere orgogliosi di vostra figlia… è bravissima mi ha fatto emozionare!” e rivolgendosi a mio padre “Tu sei il papà, ti ho visto mentre le lanciavi i fiori!”

In seguito ha conosciuto altri membri della famiglia Reale? Tutti grandi appassionati e cultori del balletto.
Sono stata presentata a Sua Maestà la regina Elisabetta, dopo la performance di “Sleeping Beauty” dell’E.N.B., in occasione del Festival di Edimburgo: ero da poco in Inghilterra e, sotto gli occhi terrorizzati di Derek Dean le ho detto…. “Hi”!! Ho conosciuto anche il principe Carlo in occasione della sua donazione al B.R.B., di cui è patron, di un grande Centro di prevenzione e di fisioterapia, dotato delle più moderne apparecchiature.

Come si svolgevano le sue giornate in sala danza nel Regno Unito? Come era una sua giornata tipo?
La mia giornata tipo era scandita da rigidi orari: sveglia alle 7, colazione all’italiana per combattere il cielo grigio e la pioggia, poi di corsa al teatro per la classe. Un break e poi prove spesso fino alla sera. Uno spazio va riservato in ogni caso al rito della cucitura dei lacci delle scarpette. Quando mi rimaneva tempo, shopping al centro dove ci sono le Maison più importanti, e poi cena con gli amici o a casa con un buon libro.

Tra tutti i ruoli danzati del repertorio classico, a quale è più affezionata? Grande successo ottenne la sua Giulietta… ruolo fondamentale per una ballerina. Come si era accostata alle mille sfumature del personaggio?
“Giulietta” e “Giselle”, i ruoli tragici per antonomasia, sono quelli a cui sono più legata. Fin dall’inizio, pur provenendo da una serie di concorsi molto selettivi riguardo la tecnica, mi ha sempre affascinato e mi affascina l’aspetto interpretativo, perché l’ho sempre sentito congeniale al mio temperamento “latino”. Per me ogni movimento ha il suo motivo di essere ed un suo significato. Mi esalta stare sul palcoscenico, mi piace dare e ricevere emozioni in alchimia perfetta, non solo col partner, ma anche col pubblico. Bisogna, cioè, saper andare al di là della tecnica che deve essere sempre rigorosa e virtuosistica ma occorre anche saper raccontare una storia. Bisogna, cioè, emozionarsi e saper trasmettere emozioni, essere coinvolti e saper coinvolgere il pubblico, in una specie di comunione ideale. Perciò mi è sempre piaciuto dare un mio personale approccio ad ogni ruolo, per interpretarlo, cercare tutte le nuances psicologiche e renderlo mio. Ogni personaggio può corrispondere a una sfaccettatura del mio carattere o rappresentare una delle tante sfumature, dei tanti aspetti della personalità femminile. Ogni personaggio ha un suo percorso, una sua evoluzione, una maturazione, una sua fine. Ho cercato di studiarli a fondo, ho attinto ispirazione dal testo letterario o dai racconti da cui era tratta la trama e dalle grandi interpreti del passato. Il personaggio di Giulietta, per esempio, inizia con una genuina esplosione di innocenza e di esuberanza di un adolescente, ancora rapita dai giochi, che si trasforma poi in una coinvolgente drammaticità che si fa via via più intensa e pervade tutto il balletto. Un ruolo altamente drammatico che io amo e soffro realmente. Cerco, infatti, di far sbocciare il suo carattere dalla timidezza puerile agli slanci della passione fino alla determinata soluzione del suicidio nel finale ineluttabile. Per affrontare la parte di Giselle, bisogna essere veramente versatili, perché la diversità di stile e di personalità del personaggio dal 1° al 2° atto richiede grande concentrazione ed esperienza per essere credibile in tutti e due i volti di Giselle: innocente e ingenua nel primo atto, lirica nel secondo… Sono si importanti le prodezze tecniche di agilità, di leggerezza, di velocità, ma essenziale è il gesto, lo sguardo, l’incedere, il modo di comunicare i sentimenti che la animano, lo stile.

Qual è stato il balletto che si avvicina di più al suo carattere?
La vita professionale di una ballerina è perennemente competitiva e comporta grandi sacrifici e scelte non sempre facili e indolori. Il balletto e il personaggio a me più congeniale forse è “Giselle”: è una storia d’amore, di follia, di morte. Anche “Giselle” combatte per amore ma in modo diverso, dolente e lirico. Amore che porta sì alla follia ma si sublima con il perdono. Pieni di pathos e bellissimi sono i momenti in cui cerca di salvare Albrect dalla morte con prove disperate e sempre più penose ma, infine, vincenti.

Quando ha deciso di dare l’addio alle scene. Quale fu l’ultimo ruolo portato in scena?
L’ultimo ruolo è stato quello di “Giselle”. Ricordo solo una pioggia di fiori, un tappeto di bellissime rose rosse (ogni ballerino me ne aveva portato una) e una lunghissima “standing-ovation” del pubblico in sala, dell’orchestra, dei maestri e del Direttore. È stata una mia scelta personale lasciare la scena al meglio della mia forma.

A suo avviso chi è stato in passato colui o colei che ha segnato la storia della danza mondiale portando quest’arte ad essere così amata e nobile?
Sicuramente Margot Fonteyn e Rudolf Nureyev.

Cosa rende così speciale il pubblico londinese e il palcoscenico del Covent Garden?
A Londra c’è il tempio della danza accademica: il Covent Garden-Opera House, dove vengono ballerini e coreografi da tutto il mondo, il Royal Ballet, la Royal Ballet School, critici esigentissimi, ma soprattutto c’è un pubblico molto competente e affezionato che frequenta regolarmente il teatro, abituato ad alti standard di danza che sa individuare i talenti e poi li “adotta” e li segue con affetto in tutte le loro performances. Essere danzatrice qui è molto gratificante, è uno status simbol! Infatti nella cultura anglosassone la danza classica è tenuta in grande considerazione, fa parte della tradizione insieme alla Regina ed è generosamente sostenuta e supportata dalla Casa Reale.

Al Metropolitan di New Work è stata étoile dei balletti di Frederick Ashton. Che esperienza è stata a livello artistico e formativo?
Ballare Ashton è sempre difficile, farlo in America dove mancava da cinquant’anni è stato di grande responsabilità ed impegno per tutta la compagnia del B. Royal Ballet. È impossibile immaginare il balletto inglese senza Ashton. In Inghilterra è molto amato e conosciuto. Per interpretare bene i suoi balletti bisogna averne assimilato bene lo stile, il famoso “english style”. Egli rappresenta il filone elegante della danza inglese. Studiando con cura le sue coreografie ho cominciato ad apprezzare il suo tratto leggero, perfettamente consono all’equilibrio, alla purezza, alla freschezza, al “bon ton” classico dello stile inglese e ad amare i sui tocchi delicati, la misura dei passi, i teneri duetti d’amore o il suo gentile humor. Può sembrare che i suoi lavori siano facili ma non è così. Per la maggior parte sono lavori creati per Margot Fonteyn: richiedono una tecnica forte e usano tutto il corpo. I movimenti del corpo e del viso sono importanti e servono a raccontare una storia. Il programma a New York prevedeva sia pezzi dell’Asthon “english style” come “The two pigeon” sia un revival di alcuni balletti poco conosciuti o in parte ricostruiti come “Dante Sonata” che risentono della danza Duncanesca. Si è cercato, così, di mostrare la complessa personalità di Ashton nella quale convivono sia l’audacia artistica e la curiosità che l’amore per la tradizione.

Tra tutti i partner artistici avuti in scena, quali ricorda con maggiore affetto?
Tra gli italiani, naturalmente Roberto Bolle, Federico Bonelli, Giuseppe Picone e tra gli stranieri, Lienz Chang, Robert Parker, Chi Cao, Cesar Morales.

La persona che lei ritiene sia stata fondamentale nella sua carriera di successo.
Il rimpianto maestro Zarko Prebil che ha creduto nel mio talento, Derek Deane che mi ha nominata Prima ballerina sul palcoscenico dopo una memorabile “Giulietta” di Nurejev e David Bintley, direttore del B. Royal Ballet, che mi ha nominato étoile ed ha creato su di me coreografie di grande successo.

Lei è stata insignita di prestigiosi premi e menzioni anche nel Regno Unito per la sua arte. Come ha vissuto e vive la sua popolarità e il successo?
Molto “understatement” diceva di me Vittoria Ottolenghi. Dopo l’entusiasmante vittoria al Concorso di Rieti e il successo di Kitri nel Don Chisciotte, mi era stato offerto un lungo contratto come Prima ballerina all’Opera di Roma, ma ero giovanissima e mi sembrava che ci fossero ancora tanti percorsi da esplorare, tanti aspetti ancora da sviluppare. La danza è come un quadro mai finito e sempre da rifinire, nuances da colorare, particolari da aggiungere, togliere, interpretare. Un’artista non si sente mai arrivata, ci sono sempre nuovi traguardi e nuove sfide e lei stessa è in continua evoluzione. La mia formazione è la sintesi di tanti insegnamenti, di tanti incontri diversi, ognuno dei quali mi ha arricchito e mi ha fatto crescere. Dico spesso che sono un cocktail: un po’ russa, un po’ francese, un po’ americana (Balanchine), un po’ inglese. Il tutto però coniugato con il temperamento latino cosi da coinvolgere il pubblico nelle emozioni delle mie eroine!

Due città a lei molto care sono Napoli e Londra: me le descrive dal suo osservatorio?
A Napoli ho ben radicate le mie radici, la mia famiglia, il mio Teatro di San Carlo, il più bello del mondo. Una grande città con una storia e tradizioni culturali che non ha eguali. Londra è una porta aperta sul mondo, una città cosmopolita dove se si ha estro, creatività, intraprendenza, niente sembra impossibile, tutto nei limiti del classico aplomb britannico.

Attualmente frequenta ancora il mondo del balletto?
Sono chiamata spesso per la preparazione a concorsi di danza e sono molti i giovani ballerini che vengono a perfezionarsi nel mio studio. Presso L’ Elmhurst che è la scuola del B. Royal Ballet, effettuo stage utilizzando anche le tecniche di yoga per la preparazione alla danza.

Come si sta lontano dalle scene?
Quando per anni hai calcato le scene ricavandone grandi gratificazioni personali e ti hanno dedicato varie copertine di famose riviste specializzate di danza non è pensabile che il cordone ombelicale possa essere reciso senza traumi e sentimenti di nostalgia. Nel mio caso, però, aver dato corpo al mio interesse per lo Yoga, che esisteva già da quando danzavo, ed averne in breve tempo ottenuto pari soddisfazioni e riconoscimenti, mi fa pensare, da una parte, che adottando le tecniche yoga, così come le padroneggio oggi, avrei potuto ottenere nella danza performance di ancora più alto livello tecnico e, dall’altra, che lo strenuo impegno fisico che la danza mi ha richiesto mi consente oggi, nello Yoga, prestazioni di grande rilievo.

Da anni è legata al mondo dello yoga che lei pratica e insegna. Qual è il segreto di questa antica disciplina e come l’ha scoperta? Attualmente so che si occupa del settore sportivo, è a contatto con gli atleti per un aiuto concreto alla concentrazione per il benessere e la resa a livello tecnico. Qual è l’aspetto più interessante di questa missione?
Sono istruttrice diplomata di Yoga nelle specialità Ashtanga Vinyasa, Dharma, Gokul, Rocket e Forrest ed ho conseguito un importante Dottorato in” Psicologia della danza” presso la Birmingham University. Ho scoperto questa antica disciplina durante un periodo di riposo forzato per un infortunio, ho cominciato a studiarla e ho capito che le “tecniche Yoga”, correttamente utilizzate, potevano essere usate oltre che per accelerare il recupero fisico anche per valorizzare tutte le attività che richiedono prestazioni fisiche e motivazionali di altissimo livello. L’obiettivo è quello di graduare ed adattare in ciascuna attività e, in particolare nella danza, gli strumenti di preparazione e/o di correzione per ottenere l’eccellenza della prestazione. L’aspetto interessante è che, nel campo della danza come in quello degli sport professionistici, per affrontare le crescenti esigenze fisiche e psicologiche oggi richieste, le tecniche Yoga e le tecniche motivazionali, modellate sulla persona, possono diventare le armi vincenti per il successo. Esse operano sulla mente per migliorare la capacità di concentrazione, la determinazione, l’equilibrio, la stabilità ed il massimo controllo nelle situazioni di stress e contemporaneamente lavorano sul corpo per ottenere la massima funzionalità fisica. È noto infatti che famosi tennisti, nuotatori, partecipanti a discipline olimpiche, si avvalgono delle tecniche Yoga per il miglioramento delle prestazioni. Tra i miei allievi vi sono molti ballerini ma anche giocatori di Rugby, atleti che praticano arti marziali, e calciatori. Attualmente mi sto occupando, infatti, dei calciatori della squadra di calcio dell’Aston Villa (Birmingham).

Michele Olivieri
Foto: archivio
www.giornaledelladanza.com

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