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Diana Ferrara presenta la sua prossima produzione e racconta di sé

A che progetto stai lavorando in questo momento?

In questo momento, ho due progetti in corso: riprendere lo spettacolo che ho allestito l’anno scorso, Aladino, che è stato creato per festeggiare i 25 anni di attività della compagnia Astra Roma Ballet da me diretta, e presentare una nuova produzione, intitolata Intrecci, che andrà in scena a Roma al Teatro Greco il 19 e il 20 maggio. Aladino è uno spettacolo contemporaneo e neoclassico, con coreografie di Daniela Megna e mie, ispirato all’omonima favola, anche se non è rivolto solo ai bambini ma anche ai giovani e agli adulti. È uno spettacolo che ha avuto molto successo e con cui abbiamo girato molto, in tutt’Italia e anche in Algeria. Quest’anno ce lo hanno richiesto a Vignale Danza e in altri luoghi. Intrecci è costituito da tre balletti:  Incontri a colori, che ho coreografato io in stile neoclassico, The Dolls di Alberto Mendez, riprodotto da me, e Nodi, coreografia contemporanea di Enrico Morelli. Poi abbiamo in programma ancora un’altra produzione per ottobre che sarà addirittura in orchestra dal vivo in un bellissimo teatro, ma non voglio dire altro, sarà una sorpresa.

Parlami del tuo percorso come direttrice di questa compagnia che ha girato il mondo

Ho creato questa compagnia quando ero quasi al termine della mia carriera come ballerina al Teatro dell’Opera. Ho puntato sempre sui giovani che, una volta usciti dalle accademie, hanno ben poche possibilità di ballare e di esprimere il loro talento. Pian piano poi ho ricevuto il contributo del Ministero e così siamo andati avanti non solo in Italia ma anche all’estero, siamo stati finanche nella Corea del Nord, a Panama, siamo stati ovunque. Con i giovani c’è molta possibilità di partire, andare, tornare, hanno molto entusiasmo, è un gruppo agile. Continuo così da 26 anni ormai, anche se diventa sempre più difficile a causa dei contributi che sono sempre più ridotti. Io mi impegno a mantenere in vita la compagnia dedicandomi all’insegnamento a tempo pieno, non è semplice, perché oggi avere una compagnia è un lusso.

Ma i tuoi artisti formano una compagnia stabile tutto l’anno o li metti insieme di volta in volta?

Magari fossero stabili! Sarebbe il mio sogno poter stipendiare i ballerini almeno 10 mesi l’anno e così avere un repertorio fisso. Purtroppo, non ho questa possibilità e loro, essendo molto giovani, aspirano anche ad andare all’estero, a fare anche altre esperienze, per cui in genere restano in compagnia per due o tre anni. È difficile avere sempre gli stessi, quindi è un continuo ricominciare daccapo per insegnare i ruoli ai nuovi. Proprio perché non posso stipendiarli sempre, do loro la possibilità di prendere altri ingaggi e dunque non sempre poi sono disponibili quando serve a me, è veramente difficile andare avanti, ma finché c’è l’entusiasmo continuo. Quando non mi piacerà più, quando non mi divertirò più o quando i contributi saranno minimi, forse dovrò prendere anch’io una decisione diversa.

Riesci a immaginare una vita diversa?

Non tanto in verità, perché solo l’insegnamento con i bambini che si dedicano alla danza senza una reale passione e quando diventano adolescenti magari cambiano interessi e non lo scelgono come percorso professionale non mi dà le soddisfazioni che mi può dare la compagnia. Quindi insisto finché posso, sono abbastanza tenace.

Come ti rapporti ai tuoi allievi e ai danzatori della tua compagnia?

È molto difficile, perché oggi i ragazzi non sono più come una volta. Noi eravamo molto più testardi, stavamo ore e ore in sala per ripetere un passo finché non ci riusciva bene, ora invece vorrebbero fare tutto e subito e quindi io provo a trasmettere loro quello che so, ma esigo sempre rispetto. Loro forse vorrebbero un rapporto più amichevole con me e questo va bene quando viaggiamo insieme, al di fuori del lavoro, ma in sala pretendo il massimo rigore, altrimenti non si ottiene niente. Il rigore lo impongo attraverso il rispetto della gerarchia all’interno della compagnia, per quanto riguarda lo studio devono fare come dico io, poi nella coreografia naturalmente posso lasciare anche spazio all’interpretazione personale se mi piace. Tengo moltissimo alla precisione ed è difficile che nei miei spettacoli i ballerini non siano tutti uguali e a tempo, anche perché vedo immediatamente l’errore, forse è una dote che ho, se c’è qualcuno che sbaglia, percepisco immediatamente l’errore, anche se si tratta solo di una sfumatura.

Hai un ricordo particolare di quando eri tu nella fase di apprendimento?

Io ho iniziato a studiare danza quasi per gioco, siamo quattro sorelle e i miei genitori ci hanno mandato tutte e quattro a scuola di danza. Io avevo sette anni quando ho iniziato e la mia insegnante era Franca Bartolomei. Un giorno mi mise alla sbarra e, notando la grande facilità con cui le mie gambe andavano su, decise di parlare con i miei genitori dicendo loro che per le mie doti avrebbero dovuto mandarmi in una scuola professionale dove si studiava tutti i giorni. Cosa che feci a 16 anni, molto tardi, perché studiavo anche col maestro Ettore Caorsi che insegnava ai ragazzi alla scuola del Teatro dell’Opera, il quale mi sconsigliava dicendomi che era un brutto ambiente, ma io ho tanto insistito perché volevo fare carriera e così feci l’audizione al Teatro dell’Opera di Roma ed il giorno dopo ero già dentro.

Che ruolo ti è piaciuto di più interpretare nella tua carriera?

Ho interpretato tutti i ruoli del repertorio classico. Il Lago dei Cigni forse è stato il balletto più bello che abbia mai danzato. Poi ho amato molto La Bella Addormentata, che mi ha consacrata étoile e che dunque ricordo con particolare piacere.

Uno dei ruoli più belli che ho interpretato due anni prima che lasciassi il teatro è stato Coppelia. Donatella Bertozzi scrisse che era stata la più grande interpretazione della mia carriera. Poi Giselle con Nureyev è rimasta una tappa talmente importante, così come il Don Chisciotte con Vasiliev. Quando danzi con un partner di quella levatura anche tu sei in un’altra condizione, un po’ perché devi reggere il confronto e un po’ perché hai una carica diversa e la soddisfazione di essere arrivata ad un bel traguardo.

Tecnicamente una mia specialità era rimanere a lungo su una punta in equilibrio e ricordo che un direttore mi disse che, per questa mia caratteristica, se fossi stata in America, avrei fatto crollare il teatro. Avrebbe voluto organizzare una serata in mio onore quando avrei lasciato l’Opera e invece purtroppo è morto prima e il teatro ha ignorato la mia attività per 25 anni. Si è limitato ad inviarmi una lettera in cui mi si comunicava che i miei rapporti di lavoro erano conclusi. Non è stato molto carino, mentre il corpo di ballo e l’ispettore mi hanno fatto una grande festa, mi hanno dato una medaglia d’oro, tante cose belle. Il teatro non ha capito che, se mi avesse immesso nella scuola, avrei potuto dare tanto.

Un ricordo di Nureyev?

Ci sarebbe tanto da dire. Con lui ho avuto un rapporto molto bello e non solo sul piano professionale. Con lui ho provato due giorni, pochissimo. Erano 14 anni che non ballava a Roma e dunque c’era una grande aspettativa. Le prove andarono benissimo e lo spettacolo fu un successo, lui addirittura mi assecondò nella coreografia in alcuni momenti, lasciando che certe cose le facessi a modo mio, fu gentilissimo e poi anche dopo lo spettacolo, aspettò che uscissi anch’io dal camerino ed uscimmo per mano nella piazza davanti al teatro gremita di gente che acclamava, che applaudiva, che chiedeva autografi. Poi la sera andammo in un night club e lì ci fu il saluto finale con il bacio sulla bocca che uscì su tutti i giornali! C’è stata una bella intesa fra noi ed anche dopo sono andata a trovarlo ovunque ballasse, in America, a Vienna, dappertutto. Ricordo che all’ingresso non mi volevano far passare perché lui non riceveva nessuno ma, quando davo il mio biglietto da visita, mi faceva venire in camerino e parlavamo, è stato sempre gentile con me.

E un ricordo del tuo Don Chisciotte con Vasiliev?

Stupendo! Anche perché era la prima volta che il Don Chisciotte si rappresentava al Teatro dell’Opera nell’edizione integrale di Gorsky, rimontata da Prebil, quindi con il massimo rigore. Era la coreografia originale del Bolshoi, dunque non c’era niente da sistemare o da cambiare e con Vasiliev avevo meno soggezione che con Nureyev, abbiamo avuto un rapporto umano più diretto, mi chiese finanche di accompagnarlo a fare shopping. Ricordo che avevo una vecchia Cinquecento e mi imbarazzai molto all’idea di farlo salire su una macchinetta così malandata. È una persona stupenda con cui ho trascorso più tempo perché abbiamo avuto otto recite insieme, dunque ci siamo frequentati di più, poi l’ho rivisto anche in seguito. L’ho fatto venire altre volte a Roma, gli ho chiesto di partecipare ad un concorso e l’ho anche invitato ultimamente alla mia festa. Non è potuto venire, ma mi ha inviato uno dei suoi quadri. Di lui ho un bel ricordo.

Non hai mai pensato di trasferirti all’estero?

Nella mia carriera sono arrivata al vertice di un corpo di ballo in un teatro e ho dato un po’ un esempio di come si dovesse stare in teatro, perché per me il teatro era un luogo sacro, dunque mi sono sempre detta: “perché andar via”? Ho viaggiato tantissimo,  Parigi, Madrid, Francoforte, Città del Messico, sono stata in tutto il mondo, ma non ho mai voluto lasciare l’Italia.

Nel corso della tua carriera ti è capitato di trovarti a combattere con le rivalità?

Purtroppo nei primi tempi sì, perché le occasioni di ballare erano pochissime ed eravamo solo tre o quattro prime ballerine. Appena finita la scuola, Eric Brun mi scelse per il Lago dei Cigni. Fu una grande opportunità per me, ma dopo questa recita il direttore artistico mi disse: “non creda che questo la faccia diventare prima ballerina” e infatti mi nominarono solista, mentre  fecero prima ballerina una ragazza che aveva danzato i cignetti. Ho sopportato per dieci anni, ma poi, finalmente, anch’io sono diventata prima ballerina e successivamente étoile. Certo chi non aveva questa nomina aveva un po’ di rivalità nei miei confronti, ma io ho sempre detto che volevo che anche altre ballassero, non volevo essere l’unica come un tempo, perché era giusto che il pubblico vedesse le diverse interpretazioni. Non avevo paura del confronto, assolutamente. Io non ho mai provato invidia, ma le altre sì e hanno cercato di crearmi un dei problemi, ma, quando entravo in teatro, avevo come dei paraocchi, pensavo al mio lavoro e basta. Forse ho anche sbagliato, perché all’epoca, quando ero al top, avrei forse potuto sfruttare quel momento, avere un manager che mi facesse ballare ovunque, me ne rendo conto solo adesso. Attualmente è difficile trovare una prima ballerina che faccia repertorio in Italia al mio livello, io ho ricevuto 120 premi ed ogni volta ho ballato perché chiedevo io di ballare, senza soldi premetto. Oggi mi dico che, se avessi avuto un manager, forse adesso sarei in un’altra situazione, magari insegnerei in una scuola professionale o dirigerei un teatro. Invece ho sempre pensato solo a dare al pubblico qualcosa di mio a cui avevo lavorato, che mi ero conquistata artisticamente, ho fatto tutto unicamente con la mia passione. Le mie soddisfazioni le ho avute comunque e ne ho avute tantissime, forse più di tante altre che sono poi diventate famose.

Che cosa è l’ “artisticità” per te?

Essere artisti è innanzitutto avere una propria personalità e qualcosa da trasmettere in maniera particolare al pubblico e alle persone che ti sono intorno. È avere una marcia in più che non tutti hanno e che non credo si possa imparare.

Tu sei stata un’artista passionale?

Passionale nella vita. Nella professione ho sempre avuto una predilezione per i ruoli raffinati ed eleganti, ma ho anche interpretato una Carmen. Forse non l’avrei interpretata quando avevo 20 anni, ma in età più matura la mia interpretazione è piaciuta moltissimo.

Quando hai smesso di danzare ti è mancato molto l’essere in scena?

Avendo sia la scuola che la compagnia, e dunque creando anche coreografie, trasmettere ad altri tutto il mio sapere non mi ha fatto sentire la mancanza della scena nell’immediato. Adesso qualche volta, quando mi rivedo nei vecchi filmati di quando ballavo, mi assale un po’ di nostalgia, ma non ho avuto un grande trauma nel lasciare la scena, proprio perché mi sono sempre tenuta impegnata e sono rimasta sempre nell’ambiente comunque.

Un messaggio per i giovani

Come in tutto, quando si tocca il fondo, poi bisogna risalire. Io me lo auguro, perché  per i giovani la vedo un po’ dura. A meno che non entrino in un ente lirico e siano stipendiati, è molto difficile trovare chi li paghi a sufficienza per mantenersi. Sembra un discorso molto materiale, ma è realistico. Io dico comunque a chi ha talento di insistere, anche trovando occasioni all’estero dove la danza è più riconosciuta e più apprezzata.

Lorena Coppola

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