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Il meglio di… Intervista ad Attilio Cocco: “Un grazie agli ambasciatori della danza nel mondo”

Intervista del 27 settembre 2011

 

Attilio Cocco, maestro, direttore di una scuola di lunghissima tradizione e di una compagnia con alle spalle un passato da primo ballerino presso il Teatro San Carlo di Napoli, una vastissima esperienza con tanti momenti da raccontare.

Un salto indietro nel tempo… come arriva la danza nella sua vita?

Il mio incontro con la danza è stato quasi frutto del caso: fu mia madre a pensare che il mondo dell’arte avrebbe potuto giovare ad un bambino che si presentava piuttosto chiuso ed introverso. Convinta da un suo caro amico, il maestro Tony Ferrante, già primo ballerino dell’Ente, mi indirizzò al San Carlo. Non avrei certo immaginato che quella sarebbe stata la mia vita.

Lei ha danzato al fianco delle più’ prestigiose étoiles mondiali come Carla Fracci, Elisabetta Terabust,Wilfride Piollet, Paolo Bortoluzzi, Bruce Mark, Burton Taylor, Nelsen Kellet ed altri, collaborando con coreografi internazionali come Beriozoff, Covacev, Dell’Ara, Pistoni, Prebil e Sparembleck, per citarne alcuni dei più famosi. Qual è il ricordo più vivo che conserva dei momenti condivisi in scena?

Ognuno di loro ha lasciato in me un ricordo, un attimo particolare, una sensazione che porto con me. Ma forse, se dovessi proprio ricordare qualcuno, non posso che menzionare Ugo Dell’Ara. Con lui ebbi l’onore di debuttare, ancora allievo della scuola, nello spettacolo Silfidi di Chopin.  Ancora adesso ho vivido il ricordo del teatro, delle scene: un sogno, nel senso letterale del termine.

Ha ricevuto prestigiosi premi, tra i quali: Premio Postano Léonide Massine per l’Arte della Danza diretto da Alberto Testa, Diapason, Rovere, Carnegie Hall a Washington, ripercorrendo tutte le tappe di una carriera così brillante c’è qualcosa di cui è particolarmente fiero e qualcosa che invece crede di aver lasciato incompiuto?

Senza ombra di dubbio il Premio Positano, che, tra l’altro, ho avuto l’onore di vincere tre volte, come ballerino e come coreografo. Rimpianti? No, non credo. Ho avuto sempre comunque la possibilità di fare ciò che amavo fare, e questo per un artista è certo quello che conta più di ogni altra cosa.

La differenza fra l’essere danzatore in scena e maestro in sala?

Il danzatore è in fondo solo sulla scena. Studia il personaggio, lo interpreta, gli dà vita. Tutto dipende da lui. Un maestro, al contrario, vede gli altri interpretare e fare quello che ha nella mentre. È un po’ il mito di Pigmalione che ritorna.

Come nasce l’idea della compagnia e quali sono state le tappe più significative di questo percorso?

Era il ’64, il repertorio classico, pure straordinario, non lasciava spazio alla sperimentazione, all’innovazione. Per questo con dei colleghi nacque l’idea della Compagnia. La chiamammo “Danza aperta”, proprio a voler indicare il nostro desiderio di aprirci a forme e modi d’espressione nuovi.

Lei ha sempre lavorato molto anche come coreografo, qual è il lavoro coreografico che la rappresenta di più?

Ogni coreografia è naturalmente parte di me. Non saprei veramente scegliere. Spesso mi menzionano il Lazzaro, che certo mi rappresenta, ma ad ognuna di esse sono particolarmente legato.

Amore per la danza e amore nella danza, l’amore per Lei ha avuto il nome di una straordinaria artista, Rita Romanelli…

Rita Romanelli era una straordinaria ballerina, ma ancor più una donna straordinaria. Le ho amate entrambe.

Anche Sua figlia ha seguito le Sue orme dedicandosi completamente alla danza sin da tenerissima età ed ora Le ha dato uno splendido nipotino, indirizzerà anche lui alla carriera di ballerino?

Per mio nipote, è ovvio, ho un amore particolare. Mi piacerebbe vederlo danzare. Indirizzarlo, no. Manuel vive nella danza, con la danza. Se avrà bisogno di danzare, sarà lui a chiederlo. È stato così anche per sua madre, del resto.

Sulla base della Sua vasta esperienza, a Suo avviso cos’è cambiato nella danza nel corso degli anni e come sarà la danza di domani?

Innanzitutto, ma dico l’ovvio, da un punto di vista tecnico, i ballerini oggi osano cose che trenta anni fa neanche si pensavano. Ma questo aspetto vale per la danza, come per lo sport. Se si pensa invece alla coreografia, rispetto al passato c’è un’esigenza di attualizzare il mito. Il repertorio è un mostro sacro ed inviolabile che ogni ballerino che voglia dirsi tale deve conoscere, studiare e su di esso mettersi alla prova. Lo spettacolo invece può andare oltre, osare di più. Un coreografo deve sentirsi libero di esprimere se stesso dentro ed oltre la tradizione. Solo così l’arte si evolve.

Cos’è che secondo Lei ha determinato la cosiddetta “crisi” del settore coreutico in Italia?

Se si pensa al modo dello spettacolo, la danza vive gli stessi disagi che in tutti i settori dell’arte si lamentano: mancanza di fondi, scarsezza di eventi, poca lungimiranza degli amministratori e del mondo della politica. Bisognerebbe dunque che ci fosse un totale cambiamento di rotta; che si cogliessero le grandi potenzialità, anche economiche, che l’arte ben gestita offre. Ma naturalmente questo è un discorso ampio e anche triste, lo lascio ad altri.

La sua visione per il futuro è positiva? Cosa devono aspettarsi le future generazioni di danzatori e cosa deve aspettarsi a sua volta il mondo della danza dalle “nuove leve”?

La mia visione è comunque positiva. Le future generazioni devono innanzitutto credere in quello che fanno. Lottare per realizzare i propri sogni, questo è vero per la danza come per tutto. D’altra parte, se non credessi che la danza ha un futuro, non continuerei la mia attività. Si tratta solo di guidare bene le nuove generazioni: non illuderle, ma neanche  scoraggiarle. Le nuove leve sono la linfa necessaria. Devono crederci. I loro sogni sono i nostri sogni e il nostro futuro.

Un messaggio conclusivo…

Più che un messaggio un omaggio, un grazie. Grazie a chi in anni non meno difficili di questi ha dato slancio, vitalità, visibilità ad un’arte che forse fino ad allora era considerata di nicchia, per pochi appassionati ed attardati eletti. Alla Fracci, alla Savignano, alla Ferri, a Bolle, nostri ambasciatori nel mondo.

Lorena Coppola

Foto di Alessio Buccafusca

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