Articolo del 28.04.2013
Il balletto “Le Sacre du Printemps” di Igor F. Stravinskij compirà un secolo di vita il prossimo mese: il suo debutto risale al 29 Maggio 1913 a Parigi, al Théâtre des Champs-Elysées, messo in scena dai Ballets Russes di Sergej Diaghilev, su musica di Igor’ Stravinskij, con scenografie e costumi di Nikolaj Konstantinovič Roerich e per la coreografia di Vaclav Nižinskij.
Di controversie “Le Sacre du Printemps” ne ha recate con sé tante, a partire dal titolo, che andrebbe lasciato intradotto: fuorviante e quasi ridicolizzante tradurre il termine “Sacre” con “Sagra”, sarebbe da tradurre piuttosto con “rituale”, trattandosi, seguendo la trama dell’opera, di un rito sacrificale pagano. Il balletto mette infatti in scena un antico rito pagano russo, che si svolgeva all’inizio della Primavera e prevedeva la scelta di una fanciulla, l’Eletta, che si sacrificasse danzando fino alla morte per propiziare la nuova stagione.
La premiere di Le sacre du Printemps è rimasta nella storia. Il pubblico e la critica si trovarono di fronte a un vero e proprio Manifesto di Arte Contemporanea, una radicale rottura con il passato sotto tutti gli aspetti: musicale, coreografico e scenico. E la sua forza risiedeva nel dichiarare a gran voce il nuovo attraverso costumi, scene e atmosfere radicate nell’antico: contro lo sfondo di Roerich di una Russia primitiva, prendeva vita l’arrangiamento del tutto radicale di Stravinskij, sul quale i ballerini si sfrenavano nelle coreografie sincopate e incalzanti di Nižinskij, con indosso abiti di lana pesante dipinti con motivi folk, al posto delle spumeggianti gonne in tulle delle silfidi tipiche di un programma à la Russes.
Quindi, nello specifico, i costumi della prima rappresentazione di Le Sacre erano una fedele riproduzione degli indumenti che costituivano il costume contadino del XVIII secolo: tuniche più o meno lunghe, gonna e grembiule per le donne; pantaloni di varia foggia, cinture e fusciacche per gli uomini. Abiti variopinti dai tessuti grezzi come il cotone o la canapa, decorati con greche dipinte a mano, e complessi ricami dai motivi geometrici, accompagnati da un copricapo a fascia e calzari legati con stringhe di pelle.
Da quell’esordio, da quella prima adorazione della Terra, dal quel primo sacrificio dell’Eletta, molti sono stati i coreografi che si sono confrontati con quest’opera musicale e con questa “storia” che affonda le sue radici nelle ancora più profonde radici dell’essere umano.
Rituali e sacralità, la natura imperiosa nei suoi cicli costanti e immutabili, il corpo primitivo a contrasto con il corpo contemporaneo il sacrificio umano. Tutto questo è nel Sacre, e nei Sacre che seguirono. Dall’atto eroico al femminile dell’Eletta secondo la riscrittura coreografica di Mary Wigman fino alle linee pure ed eteree di Maurice Bejart, che delineò un rito minimal; da Mats Ek, che stravolge alla base la storia originaria, portando il Sacre nel Giappone tradizionale, fino al rito sciamanico della grande madre del contemporaneo, Martha Graham.
E poi, tra i tanti piani di lettura possibili, tra le tante sfumature da cogliere, arriva lei, Pina Bausch, che con i suoi interpreti del Wuppertal Tanztheater, porta sulla scena un altro Sacre ancora, un altro rito e un’altra meraviglia sulle note magiche di Stravinskij. Sul palco, uno strato di terra, dove i danzatori si muovono nei loro gesti quasi ossessivi, ripetuti intorno e accanto all’Eletta, la vittima sacrificale in rosso.
Nel Sacre di Pina, il costume diventa minimale: lunghe tuniche a spallina sottile di tessuti leggeri, seta e chiffon, che lasciano in trasparenza il corpo nudo, coperto da una semplice culotte per le donne, e pantaloni lunghi scuri per gli uomini. La scelta del rosso per dell’Eletta non è casuale: «il rosso è il colore più potente, vivido ed eccitante: è il sangue della vita e della morte. In quanto tale è anche ambiguo: alla vita, al fuoco, al sole e al potere corrispondono sempre il sacrificio e la morte. I filati e i tessuti di colore rosso sono associati al culto degli spiriti e ai demoni, alla giovinezza e al matrimonio, ai talismani e ai poteri occulti.» (Sheila Paine, 1990).
Salvatore D’Orsi e Antonino Terminiello