Nel cuore pulsante dell’Ottocento, quando il palcoscenico era ancora illuminato da luci a gas e la danza viveva il suo periodo più etereo, una figura minuta ma ardente rubava la scena con la sola forza dei suoi piedi in punta.
Il suo nome era Sofia Fuoco, e il suo talento lasciava una scia incandescente ovunque posasse lo sguardo… o il piede.
Sofia Fuoco non era nata Fuoco. Il suo vero nome, Maria Brambilla, non aveva nulla di infuocato, se non forse il destino.
Nata a Milano nel 1830, in un’Italia ancora spezzata, crebbe in una famiglia dove la danza era lingua madre.
Fin da piccola, il suo corpo parlava con una grazia che andava oltre la tecnica: era espressione pura.
Sotto la guida severa e geniale di Carlo Blasis, Sofia si forgiò come l’acciaio sotto il martello. Blasis non addestrava solo ballerine, ma plasmava icone. E Sofia fu una delle sue punte di diamante — forse la più brillante.
A nove anni debuttava al Teatro alla Scala, e a tredici portava già il titolo di prima ballerina assoluta.
Era l’epoca dei sogni in tutù, e Sofia sembrava incarnarne ogni piega. Quando danzava, il suo corpo sembrava librarsi tra il visibile e l’invisibile.
Era un tempo in cui il balletto era arte, politica e passione — e lei era tutto questo.
Il suo talento varcò presto i confini italiani. A Parigi, al Teatro dell’Opéra, arrivò giovanissima a sostituire nientemeno che Carlotta Grisi.
Le aspettative erano altissime, ma Sofia non tremò. La stampa francese la soprannominò La Pointue: la regina delle punte. Gautier, penna affilata e spirito esigente, le dedicò paragoni alati e vibranti — paragoni che si concedeva solo alle muse.
A Londra il pubblico applaudiva il suo slancio. A Madrid, diventò persino figura di culto, non solo artistica, ma quasi politica: i suoi sostenitori, vestiti di garofani rossi, le dichiaravano fedeltà come a un’eroina rivoluzionaria.
Le acconciature à la Fuoco spuntavano ovunque, segno che la sua immagine era diventata mito.
In un secolo dove la libertà femminile era ancora un ideale lontano, Sofia Fuoco non solo danzava, ma esisteva con intensità. Non fu mai comprimaria della propria carriera: scelse, sfidò, si espose. Non cercava l’applauso facile ma il rispetto, e lo ottenne ovunque calcasse la scena.
Quando decise di abbandonare il palcoscenico — verso la fine degli anni Cinquanta — lo fece con la stessa discrezione con cui era salita sul trono della danza. Si ritirò senza clamore, lasciando dietro di sé una leggenda che ancora oggi riscalda la storia del balletto. Morì nel 1916, in un’Italia ormai unita, ma con molto meno incanto di quello che lei aveva conosciuto.
La figura di Sofia Fuoco resta impressa nella memoria non solo per l’eccellenza tecnica, ma per aver incarnato un’epoca intera — quella in cui il Romanticismo danzava sulle punte.
Michele Olivieri
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