
C’è un momento, nel buio ovattato di un teatro, in cui il silenzio si spezza solo dal fruscio di un tutù. Poi, un passo: la ballerina si solleva sulle punte, e tutto il mondo trattiene il respiro.
Quell’istante di sospensione — fragile e potente insieme — racchiude secoli di arte, fatica e ingegno. Ma come sono nate, davvero, le punte?
Nel Settecento, quando la danza era ancora un gioco di grazia e non di levitazione, le ballerine indossavano semplici pantofole di seta. Si muovevano leggere, ma i loro piedi restavano saldamente ancorati alla terra.
Fu l’epoca delle pionieristiche Marie Camargo e Marie Sallé, donne audaci che liberarono la danza dalle gabbie del costume barocco, ma ancora non dalle leggi della gravità.
Tutto cambiò nel 1832, quando Marie Taglioni, in La Sylphide, salì sulle punte con la grazia di un essere non terreno. Non fu solo un gesto tecnico: fu un atto poetico.
Le sue scarpe erano tutt’altro che confortevoli — sottili, senza rinforzi, più vicine a delle torture che a strumenti di scena. Ma in quell’ascensione si compì una metamorfosi: la ballerina diventava spirito, l’umano diventava sogno.
Da quel momento, il volo divenne la missione del balletto. Le punte non erano più un supporto: erano un simbolo di trascendenza.
Con l’arrivo della tecnica russa e italiana nella seconda metà dell’Ottocento, la danza sulle punte smise di essere pura illusione e divenne una scienza del corpo.
Ballerine come Pierina Legnani e Anna Pavlova pretesero scarpe che sostenessero la forza crescente delle coreografie.
Così nacquero le prime punte rinforzate: scatole rigide, suole temprate, tessuti sovrapposti. La leggerezza restava l’obiettivo, ma ora era sostenuta da una struttura nascosta — un piccolo capolavoro di ingegneria invisibile.
Il XX secolo consacrò le punte come icona della danza classica. Ogni grande maison di balletto aveva le proprie: Freed of London, Capezio, Grishko, Porselli, Repetto, Atelier Tersicore.
Ogni ballerina ne personalizzava la forma, tagliava nastri, ammorbidiva la colla, piegava la suola con rituale quasi religioso.
Dietro la perfezione estetica del gesto, si nascondeva il sacrificio: piedi feriti, notti di allenamento, calli trasformati in trofei. Ma è proprio lì, nel contrasto tra dolore e bellezza, che il balletto trovò la sua eternità.
Oggi le punte entrano in laboratorio. Materiali termoplastici, suole in fibra, comfort ergonomico: la tecnologia affianca l’arte per preservare ciò che la danza ha di più prezioso — il corpo umano.
Marchi come Gaynor Minden o Bloch reinventano la tradizione senza snaturarla, mentre coreografi contemporanei giocano con l’idea stessa di equilibrio, spingendo le punte a esplorare terreni nuovi: il cemento, la terra, l’acciaio del palcoscenico urbano.
Le punte, un tempo simbolo di leggerezza eterea, oggi raccontano anche la forza, la resistenza e la modernità della donna che danza.
Ogni volta che una ballerina si solleva, non è solo il suo corpo ad ascendere: è la storia di un’arte che ha imparato a sfidare la gravità, letteralmente e simbolicamente.
Le punte sono un ponte fra carne e sogno, fra il sudore delle prove e la magia del sipario.
E mentre i riflettori si accendono e il pubblico ammira quella perfezione sospesa, solo chi ha danzato sa che tutto comincia da lì — da due piccole scarpe che, da due secoli, insegnano all’umanità a stare un po’ più vicina al cielo.
Michele Olivieri
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