Intervista del 12 gennaio 2012
Ti sei diplomata in Belgio al “Ballet Royal des Flandres”, come mai questa scelta per una danzatrice italiana?
Fin da piccola, sono sempre stata una perfezionista. Qualsiasi cosa facessi, dovevo farla bene, con impegno e col massimo risultato. Volevo sempre sapere il perché di tutto. Mi sono sempre piaciute le competizioni e le sfide, ma quelle costruttive, quelle con me stessa, quelle che servono a migliorare ed acquisire nuove conoscenze. Ero minuta, fragile e timidissima. Scoprii il mondo della danza in una scuola di monache francesi, presso le quali frequentavo l’asilo. Da allora sono entrata in un’altra dimensione e non ne sono più uscita! Mi piacque tantissimo e non mi bastavano quelle poche ore: volevo imparare di più, sapere di più, migliorare, andare avanti. Così io, pur piccolissima, costringevo i miei a fare un tour de force durante la settimana e frequentavo tre scuole di danza contemporaneamente perché in ognuna di esse c’era qualcosa che mi piaceva (in una l’espressività, in un’altra il rigore accademico russo, nell’altra, infine, tenuta da un maestro, la cura dei salti e dei giri). Crescendo, ed essendo aumentato l’impegno scolastico, ero costretta a studiare di notte. L’italiano, il latino, il greco, la storia, mi piacevano molto, mi facevano scoprire le mie radici culturali, mi ampliavano gli orizzonti. Non sarei mai rimasta indietro, non sarei mai andata a scuola impreparata dando soddisfazione alla professoressa che mi interrogava ogni giorno dicendo che la danza mi faceva solo perdere tempo! Ma scalpitavo, ero impaziente, mi ero accorta che nella danza il tempo scorre in fretta, che c’erano tante cose ancora da imparare, da vedere, da sperimentare. Così sembrò un segno del destino la vincita di una borsa di studio a Venezia, sull’isola di S.Giorgio, con maestri internazionali. Si aprì davanti ai miei occhi un mondo tutto nuovo e fantastico, quello che avevo sempre sognato! Tra i maestri c’era anche un’étoile del “Ballet du XXème siècle” che mi consigliò una prestigiosa scuola di danza ad Anversa (Antwerpen) nelle Fiandre, proprio quel tipo di scuola che desideravo! Feci l’audizione e fui ammessa. La scuola diretta da Jeanne Brabants aveva maestri di livello internazionale (Maria Metchkarova,Tom Van Cauwenberg, Janine Van Boven) e prevedeva, a differenza delle scuole italiane, sia lo studio delle materie tradizionali che la danza in tutte le sue forme. Il programma spaziava dalle lingue alla storia, dalla musica alla pantomima, dal teatro e dalla letteratura al trucco di scena, dall’invenzione coreografica alla storia del balletto, dallo studio delle varie tecniche e degli stili di balletto alla preparazione ai concorsi.
Le tappe del tuo percorso sono state molto precoci, già prima ballerina, a diciassette anni, dell’Opéra Royal de Wallonie e, poi del Ballet Royal des Flandres. Invitata subito dopo la vittoria del Concorso di Rieti da V.Vassiliev come ospite al Teatro dell’Opera di Roma dove ti sono state consegnate le chiavi del Teatro. Dal 1993 senior soloist e Prima Ballerina dell’English National Ballet, infine principal del Royal Ballet a Birmingham. I ricordi più salienti di questi anni così importanti.
Frequentavo ancora la scuola quando Janine Van Boven, ex ballerina del balletto del XXme Siècle, mi chiamò come prima ballerina all’Opera Royal de Wallonie creando su di me una straordinaria Cendrillon. Fu la prima grande esperienza in un ruolo principale. La stampa belga mi definì “petite elfe passionée” e Liegi era completamente tappezzata di miei manifesti. Janine fu anche una preziosa maestra (Diane et Acteone, Giselle, Guerra e pace di Valerie Panov, Le Corsaire, Esmeralda) per vari concorsi internazionali. Dopo la vittoria al Concorso internazionale di Lussemburgo, Robert Denvers, Presidente del concorso e Direttore del Ballet Royal des Flandres, mi volle nella sua compagnia ad Anversa. Da lui, maestro al New York City Ballet ed all’American Ballet, appresi lo stile Balanchine – nel quale mi specializzai – pieno di dinamismo e virtuosità ad alto livello, un’assoluta novità nel panorama della danza europea. Ancora un concorso ed una vittoria, stavolta in Italia, a Rieti, presidenti di giuria Vladimir Vasiliev e Ekaterina Maximova, due icone della danza e, subito dopo, l’invito ad inaugurare la stagione di balletto del Teatro dell’Opera di Roma con il Don Chisciotte di Gorsky-Petipa. Invito prestigioso che mi entusiasmava ma che, allo stesso tempo, mi faceva tremare i polsi:era la prima volta che danzavo Kitri. Il maestro Zarko Prebil, che ricostruì la coreografia originale con scene di Benois, mi chiamava affettuosamente col suo accento russo “talentuosa” e con i suoi suggerimenti affrontai con entusiasmo e sicurezza le sfide tecniche e interpretative che la parte richiedeva. Fu un grande successo, il Sovrintendente mi consegnò le chiavi del Teatro e mi offrì un lungo contratto. La moglie di un famoso ministro si sfilò due anelli di brillanti di Cartier e me li donò ringraziandomi per le emozioni della serata, dicendomi di considerarli un portafortuna. La stampa specializzata parlò di “tecnica strepitosa nei salti e nei giri”, di “grazia e allongé delle linee”, dei “grands jetés che oltrepassavano l’ umano limite dei 180°”, degli “incantevoli arabesques”, di “grandi doti di artista sensibile e già matura quando da villana si trasforma nell’eterea Dulcinea”, “la stessa eleganza della Pavlova”, “il carattere brioso della Maximova”. Contemporaneamente ebbi pure l’offerta di un contratto da parte di Roland Petit e del nuovo direttore dell’English National Ballet. Quando mi sentii pronta ad affrontare una nuova sfida, partii per Londra. Qui, naturalmente, trovai uno stile del tutto diverso, quello inglese (Ninette de Valois, Frederick Ashton, Kenneth MacMillan) che, secondo i dettami della sua fondatrice, voleva unire la grazia del balletto di scuola francese con la fisicità di matrice russa. È quindi rigoroso e richiede massima cura nei dettagli. La compagnia era internazionale, formata da giovanissimi provenienti dai concorsi di tutto il mondo, con maestri tutti ex ballerini del Royal Ballet e la supervisione di Natalia Markova. L’impatto fu molto duro e la competizione interna fortissima. Dovetti adeguarmi a ritmi di lavoro intensi e stressanti, con numerosissimi spettacoli l’anno e in stili differenti. Fu, però, un’esperienza professionale importante e di grande spessore che mi portò alla promozione sul palcoscenico a “Prima Ballerina”. Infine, passata nella compagnia del Royal Ballet a Birmingham, ho avuto la successiva consacrazione, cioè la promozione ad “étoile” o “principal dancer”, come si dice in Inghilterra. In questa compagnia il direttore, David Bintley, allievo di Ninette de Valois e di Sir Peter Wright, è anche coreografo ed è considerato il successore di Ashton e di Macmillan. Ciò che rende speciale la danza inglese è il fatto che Ashton e Macmillan hanno fondato un linguaggio capace di cogliere tutta una vasta gamma di emozioni, di esprimerle e raccontarle in termini di danza. Bintley continua la loro tradizione, aggiungendovi l’audacia e la velocità di stile balanchiniano. È bello e stimolante lavorare con un coreografo, assistere e partecipare al suo lavoro creativo! Vastissima è la serie di balletti da lui creati ed io ho avuto la fortuna di ballare le figure femminili più importanti.
All’English National Ballet sei stata scelta per il ruolo di Giulietta, coreografia di Rudolf Nureyev e, alla tua prima interpretazione, sei stata nominata in palcoscenico prima ballerina ricevendo i complimenti personali di Lady Diana presente in sala. Giulietta è dunque il ruolo che preferisci in assoluto?
Giulietta è un personaggio straordinario, una ragazza veramente forte e combattiva per i suoi tempi e la coreografia di Nureyev ha saputo cogliere e sottolineare questo aspetto. La coreografia è complessa con passi difficili ed è pervasa insieme di passione e liricità, è “sparkling” e poetica al tempo stesso. Ho studiato a fondo questo ruolo sentendolo molto congeniale al mio temperamento ed ho approfondito a lungo anche lo studio del conteso storico e del testo shakespeariano. Ho riflettuto sull’anima di Giulietta e sulle ragioni del suo comportamento per mettere in luce tutte le nuances psicologiche del personaggio e renderlo mio. Infatti inizia con una genuina esplosione di innocenza ed esuberanza di un’adolescente, ancora rapita dai giochi per poi trasformarsi in una coinvolgente drammaticità che si fa via via più intensa e pervade tutto il balletto. Un ruolo altamente drammatico che io amo e soffro realmente, cercando soprattutto di mettere in luce l’evoluzione psicologica del suo carattere che sboccia piano piano dalla timidezza puerile agli slanci della passione fino alla determinata soluzione del suicidio nel finale ineluttabile.
Interpretare “Juliet” per me è stata una prova straordinaria ed emozionante. Era la prima volta che danzavo quel ruolo, il sogno di tutte le giovani ballerine, nella difficilissima coreografia di Nureyev, a Londra, il tempio della danza accademica di eccellenza e del Royal Ballet, dove ci sono critici esigentissimi che possono stroncare una carriera con una sola parola e c’è un pubblico molto competente abituato ad alti standard di danza che sa individuare i talenti e poi li “adotta”e li segue con affetto in tutte le loro performance. La visita che Lady Diana, commossa, volle farmi nel mio camerino, rompendo ogni protocollo, per congratularsi personalmente con me, è stata una cosa indimenticabile, un premio ancora più grande della stessa promozione a prima ballerina, poco prima avuta sul palcoscenico.
Un altro ruolo che pensi rappresenti di più la tua personalità.
I ruoli che rappresentano di più la mia personalità sono i ruoli tragici per antonomasia: Giulietta, Giselle, Odette, forse perché sono incline a cogliere e a condividere con loro il lato tragico dell’esistenza. Nella vita ho dovuto sempre combattere, niente mi è stato regalato, ho conquistato tutto con le mie sole forze, con grandi sacrifici e con scelte non sempre facili e indolori! Di Giselle sono innamorata sin da piccola, è un altro personaggio a me carissimo, che mi entra dentro e mi emoziona profondamente: la sua è una storia di amore,di pazzia, di morte. Anche Giselle combatte per amore, ma in modo diverso, dolente, lirico. Amore che porta prima alla disperazione e alla pazzia ma che poi si sublima con il perdono! Bellissimi, intensi e pieni di pathos sono i momenti in cui cerca di salvare Albrecht dalla morte con prove successive, sempre più penose e disperate ma, infine vincenti! “Una Giselle da Oscar” intitolava L’Arena di Verona, il giorno dopo la prima di una mia Giselle a Verona, con Roberto Bolle. Ma le eroine della danza mi piacciono tutte, le considero sempre una sfida, sia dal punto di vista tecnico che interpretativo. Ognuna può corrispondere ad una sfaccettatura del mio carattere o rappresentare una delle tante sfumature, dei tanti aspetti della personalità femminile. Ho sempre concepito la danza come ricerca dell’eccellenza, non solo dal punto di vista tecnico stilistico, ma anche come approfondimento storico, psicoanalitico del personaggio e del suo ambiente. Fare questo studio, questo lavoro interiore, mi affascina e mi permette in scena di vivere e non solo recitare un personaggio, di comunicare al pubblico le sue emozioni coinvolgendolo e chiamandolo a partecipare a quelle che sono poi le passioni eterne che da sempre agitano il cuore degli uomini (l’amore, l’abbandono, la gioia, la disperazione, la pazzia, la morte).
Aver raggiunto dei traguardi così importanti in giovanissima età ti fa sentire oggi un’artista arrivata all’apice della sua carriera o credi ci siano ancora tanti percorsi da esplorare e in cui, magari, metterti ancora in discussione?
Sì, è vero, ho cominciato giovanissima e giovanissima ho raggiunto traguardi importanti. Ricordo che dopo i tripli giri e l’entusiasmante vittoria al concorso di Rieti su una partitura di Ciaikovsky-Balanchine, vivevo in un’atmosfera magica: mi sembrava di essere sulla luna! Decine di interviste sui giornali e alla televisione, offerte di contratti da parte di Roland Petit, dell’Opera di Roma e di altri importanti impresari, ma sono rimasta con i piedi per terra e sono tornata, tra lo stupore di tutti, al Ballet Royal des Flanders per continuare a studiare ed a perfezionarmi. Se avessi accettato subito uno di quei contratti, mi sarei seduta sugli allori, non sarei quella che sono oggi. Avevo una bella tecnica e doti naturali, avrei avuto successo sì, ma ero troppo giovane, dovevo ancora studiare, avere ulteriori stimoli, migliorarmi. Non mi è mai piaciuto il successo per il successo, mi è sempre piaciuto andare in profondità delle cose. Volevo sapere più su tutto, le varie tecniche, l’interpretazione. Sin dall’inizio, pur provenendo da una serie di concorsi molto selettivi riguardo la tecnica, mi ha sempre affascinato l’aspetto interpretativo, perché molto affine al mio temperamento Per me ogni movimento ha un suo motivo di essere e un suo significato. Mi esalta stare sul palcoscenico, mi piace dare e ricevere emozioni in alchimia perfetta non solo col partner, ma anche col pubblico. È importante saper andare al di là della tecnica che deve essere sempre rigorosa e virtuosistica e saper raccontare una storia, un’emozione, un qualcosa di vissuto o di sognato. Bisogna cioè emozionarsi e saper trasmettere emozioni, essere coinvolti e saper coinvolgere il pubblico in una specie di comunione ideale, di “sposalizio simbolico”. Infatti, ogni sera, quando si spengono le luci e sono sul palcoscenico, sotto i riflettori, con gli occhi degli spettatori puntati su di me e comincio a danzare, è allora che incomincia “la mia festa” più importante, sento il calore del pubblico e lo ricambio con altrettanto amore, coinvolgendolo nelle emozioni delle mie eroine. La Danza è una passione, è un demone che hai dentro, perciò un’artista non si sente mai arrivata, ci sono sempre nuovi traguardi e nuove sfide e lei stessa è in continua evoluzione. La mia formazione è la sintesi personale e sempre in fieri di tanti insegnamenti, di tante esperienze, di tanti incontri diversi, ognuno dei quali mi ha arricchito e mi ha fatto crescere. Io dico spesso che sono un cocktail: un po’ russa, un po’ francese, un po’ americana (Balanchine), un po’ Béjart, un po’ inglese, il tutto però reso particolare, impreziosito dal temperamento latino. Ed è proprio questo, penso, che piace molto al pubblico! Naturalmente sono tanti ancora i percorsi da esplorare, tanti gli aspetti da sviluppare. Gli stessi ruoli possono essere ballati in modi e tecniche diversi, si hanno a disposizione tante sfumature, molteplici colori. La danza è come un quadro mai finito e sempre da rifinire, nuances da colorare, particolari da aggiungere, togliere, interpretare. Mi piacerebbe molto lavorare, per esempio, con Neumeier ma so che raramente si sposta dalla sua compagnia.
Lo stile in cui ti riconosci di più
Mi piacciono molto sia lo stile di Balanchine che quello di MacMillan. Ho imparato ad amare ed ad apprezzare la novità e la bellezza dello stile Balanchine al Ballet Royal des Flander con il direttore Robert Denver, maestro dell’American Ballet e poi con Melissa Hayden, la leggendaria ballerina di Balanchine, con la quale ebbi la fortuna di fare una master class nelle Fiandre e che mi propose una borsa di studio nella scuola da lei diretta in America. Ho conosciuto poi anche Patrizia Neary del Trust Balanchine, in Inghilterra in occasione dell’allestimento dei vari lavori di Mr B. per la compagnia. Le variazioni di Balanchine, in genere, sono molto difficili: la tecnica deve essere smagliante e veloce e dare l’illusione perfetta di una gioiosa virtuosistica serenità e deve, contemporaneamente, essere accompagnata da un elegante lavoro di braccia. Le variazioni cui sono più affezionata sono: Tchaikovsky pas de deux, pieno di quella grande vitalità tutta americana con colorature di grazia vibrante, che ho eseguito al Teatro Nuovo di Bolzano in occasione del premio “Danza e Danza” assegnatomi quale “migliore danzatrice italiana nel mondo“ e Tarantella, su musica di L. Moreau Gottschalk, un fuoco di artifizio di prodezze e virtuosismi, che ho eseguito prima in Inghilterra al Gala “Sir Fred and Mr.B.” per celebrare il centenario della nascita di Frederick Ashton e di Gorge Balanchine e poi al Festival di Monaco (Bayerisches Staatsballet). Mi affascina, però, per altro verso, anche la cifra narrativa di alto profilo del balletto drammatico di Mac Millan col suo linguaggio teatrale e tragico, con i suoi movimenti speciali, capaci di esprimere gli stati d’animo e le motivazioni più profonde delle azioni. I suoi passi a due di grande abbandono, appassionati e complici sono molto trascinanti e tra le cose più belle da ballare.
Hai danzato anche al Metropolitan Opera House di New York, in una rara ricostruzione di balletti di Frederick Ashton. Come hai vissuto questa responsabilità artistica?
Danzare Asthon è sempre difficile, portarlo poi in America, dove non si rappresentava dal 1960, per la celebrazione del centenario della nascita (Ashton Celebration), è stato di grande responsabilità e molto impegnativo per tutta la compagnia. A prima vista può sembrare che i suoi lavori siano facili, ma non è così. In gran parte sono ruoli creati per Margot Fonteyn, ruoli complessi che richiedono una tecnica forte e coinvolgono tutto il corpo. Il programma a New York prevedeva un revival di alcuni balletti di un Ashton poco conosciuto, alcuni in larga parte ricostruiti, come Dante Sonata, che risentono non solo di influenze duncanesche ma, soprattutto, della danza impressionista tedesca del 1930, proprio quella danza che aveva influenzato il primo maestro di Ashton, Léonide Massine. E poi altri pezzi dell’Ashton “English Style”, come The two pigeons, poco rappresentato a New York, nel quale si evidenzia il suo tratto leggero, la giustezza dei passi e il dolce lirismo dei suoi teneri duetti d’amore. La mia interpretazione nelle varie performance ha cercato di mostrare la complessa personalità di Ashton nella quale riescono a convivere l’audacia artistica e la curiosità con l’amore per la tradizione. È stata, perciò, intensa e appassionata nei lavori barefoot, come Dante Sonata (Leader of the Children of the Light), limpida, gioiosa e raffinata, invece, nei lavori più “English Style”con le punte, come per esempio in The Two Pigeons (The Young Girl) che, nel pas de deux finale, riproduce la delicata atmosfera delle schermaglie delle colombe in amore.
All’Expo 2005, in Giappone, hai rappresentato l’Italia insieme a Roberto Bolle. Anche tu ambasciatrice della danza italiana nel mondo?
Ero al Teatro Regio di Parma, in occasione del II Festival Internazionale del Balletto e danzavo “Giselle” con Roberto Bolle. Dopo il grande successo della prima, dirigenti del Ministero degli Esteri Italiani e dell’Ambasciata Giapponese, presenti in sala, entusiasti ci invitarono a rappresentare l’Italia all’Expo in Giappone, la Prima Esposizione Universale del terzo millennio. Che occasione unica e prestigiosa essere testimonianza del patrimonio artistico del nostro paese unitamente alla preziosa statua bronzea del Fauno Danzante, che, simbolo dell’Arte Italiana, ci avrebbe accompagnati in Giappone! Per noi ballerini italiani che viviamo o abbiamo vissuto a lungo all’estero rappresentare l’Italia è sempre motivo di orgoglio ma anche di grande responsabilità. Ci fa capire quanto sono ricche e profonde le nostre radici culturali, quanto è importante la nostra “italianità” che ci dà la magica capacità di cogliere la complessità delle cose e, cosa indispensabile per un danzatore, ci permette di coniugare istintivamente il senso artistico con la tecnica. A tal proposito, recentemente, al Teatro San Carlo di Napoli, ho ricevuto, dall’Unione Industriali di Napoli e dal Presidente del Consiglio, un importante riconoscimento che mi ha riempito di orgoglio: il Premio “Eccellenza napoletana nel mondo”, insieme ad illustri personalità del mondo dello sport, della medicina, delle professioni liberali, dell’architettura e dell’imprenditoria che, fuori dei confini nazionali, hanno dato lustro al nome di Napoli emergendo con il loro talento nei più diversi ambiti professionali.
Dopo tanti anni all’estero senti il desiderio di tornare a ballare in Italia?
Essere danzatrice in Inghilterra è molto gratificante, è uno status symbol. Infatti, nella cultura anglosassone, la danza classica e gli artisti che ad essa si dedicano, sono tenuti in grande considerazione. La danza fa parte della tradizione insieme alla Regina ed è generosamente sostenuta e supportata dalla Casa Reale. Qui, nella compagnia reale, ho avuto molte possibilità. Ho potuto spaziare in quasi tutto il repertorio classico dell’800 e del 900 sia inglese che internazionale, ho lavorato con molti coreografi. Lavoro in una compagnia con strutture ed organizzazione di alto livello, con un grande centro di prevenzione e di fisioterapia, in partnership con l’Universtà e con il Trinity College of Music. Facciamo tournée in tutto il mondo! Sento però, che mi manca qualcosa: l’Italia! Perchè in Italia ci sono le mie radici, perché, nonostante tutto, i teatri italiani sono i più belli e antichi del mondo, hanno un fascino ed un’atmosfera tutta particolare, il pubblico italiano è molto caloroso. La mia aspettativa, e lo sento anche come un dovere, è quella di poter trasferire questo mio bagaglio di esperienze internazionali ed il vissuto organizzativo in una grande Compagnia di balletto su di un palcoscenico e in un teatro italiano, condividere con il pubblico e con i giovani del mio paese tutto quello di bello che ho conquistato con impegno e con amore!
Il tuo impegno più recente e le produzioni e i ruoli che ti vedranno impegnata a medio e a lungo termine.
Il mio impegno più recente è stato a Londra al Sadler’s Wells Theater nel ruolo di Lisa in “La fille mal gardée”, uno dei balletti più belli di Ashton. Per il periodo natalizio sarò impegnata in Nutcracker, coreografia di Peter Wright (Sugar Plum Fairy). A gennaio, in Beauty and the Beast coreografia David Bintley (Beauty,The Wild Girl ). A febbraio Hobson’s choice (Maggie ), coreografia di David Bintley. In Primavera Spring Passions, Coppelia, coreografia di Peter Wright (Swanilda) e un “triple bill” con The two pigeons”, coreografia di Asthon (The Young Girl)e altri pezzi da definire. In estate Far from the madding Crowd, coreografia di David Bintley (Bathsheba), dal famoso romanzo di Thomas Hardy, con un’eroina tipo Via col vento e poi un altro “triple bill” con The Grand Tour, coreografia di Joe Lajton e altri pezzi da definire.
Lorena Coppola