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Il meglio di… Realtà e coreografi emergenti – Teatro Laboratorio VI.D.: “L’arte coreutica è una dinamica fondamentale per la veicolazione di contenuti”

- Teatro Labratorio VID - ph. Bruno Raia

Intervista del 09.06.2013

Teatro Laboratorio VI.D. è una realtà operante sul territorio campano, con l’intento di portare una consapevolezza artistica in ambiti di difficile penetrazione culturale. I suoi fondatori, Francesco Visione, regista e drammaturgo, e Melania Visone, danzatrice e coreografa, raccontano il loro percorso al giornaledelladanza.com

Teatro Laboratorio VI.D… come nasce questa realtà e in cosa consiste esattamente?

Nasce sostanzialmente come un’ambizione visto soprattutto il territorio su cui tentiamo di porre in essere i nostri contenuti e nasce soprattutto dal desiderio di fondere una serie di linguaggi decisamente legati alla strategia contemporanea  da Mejerchol’d  ad Artaud legando questi linguaggi che nascono dalla parola all’uso e alla dinamica del corpo.

L’idea di creare un teatro-laboratorio può considerarsi una diretta derivazione dell’elaborazione delle idee di Stanislavskij?

Stanislavskij è sicuramente un elemento portante all’interno del nostro lavoro, anche se è solo uno degli elementi, la volontà è proprio quella di parcellizzare i contenuti offerti dalla storia del teatro contemporaneo per poterli utilizzare in maniera quasi totalizzante. Riguardo Stanislavskij, sicuramente c’è la volontà di abbattere la quarta parete, sicuramente c’è l’esigenza legata alle memorie emotive, quindi alla volontà di portare un sentimento reale e concreto sulla scena, ma certamente la sua influenza non è totalizzante, perché poi la struttura drammaturgica fondamentalmente si fonda più sul teatro della crudeltà. La domanda da porsi è la seguente: che senso avrebbe andare a teatro, pagare un biglietto e far finire tutto l’elemento emotivo lì, in quel contesto? Il teatro funziona se tornati a casa, passati anche alcuni giorni, nel pieno della notte ci si sveglia di soprassalto e come un pugno ritorna in mente qualcosa ed è quell’emozione che cerchiamo di costruire ogni volta, quella sensazione.

Stanislavskij ha segnato il passaggio a un teatro “moderno”, spostando il centro su uno spettacolo in grado di determinare un rapporto col pubblico che abbia valore in sé, capace di assumere un significato, quindi con un grande valore comunicativo. Cos’è la comunicazione per voi?

Comunicare è sicuramente trasmettere un contenuto, allontanarsi da Stanislavskiju nel senso della comunicazione è sicuramente questo, avere detonato l’esigenza di raccontare una storia e aver sostituito quel tipo di narrazione con una serie di linguaggi che si mescolano e con l’esigenza della danza, ossia il linguaggio del corpo, che il più delle volte può sopperire a molte mancanze della mera parola.

In senso più prettamente coreutico, qual è il concetto di danza alla base del vostro lavoro?

Un completamento. Talvolta semplicemente arricchisce, talaltra serve ad aumentare la percezione del pubblico. A teatro la funzione segnica è portante, ogni elemento è un contenuto di scena, ecco perché la danza diventa fondamentale, perché attraverso il linguaggio del corpo è possibile aprire nuove dinamiche, nuovi significati, nuovi contenuti. Dal punto di vista della danza, l’aspetto concettuale va di pari passo con quello tecnico e con un linguaggio prettamente contemporaneo, in questo caso Cunningham, Graham, Limon, tecniche elaborate in maniera personale. L’elemento innovativo della danza all’interno del nostro progetto è non incastonare l’aspetto coreutico in un’idea di performance, ma nel renderlo una chiave di lettura indispensabile, imprescindibile, legato sicuramente all’uso mejerchold’iano della consapevolezza del corpo. La danza fondamentalmente nelle sue strutture di base raccoglie e racchiude la maggior parte delle tecniche attoriali. Alcune coreografie hanno bisogno di un’anima, si vedono molto spesso lavori tecnici privi di anima e questo è ciò che noi cerchiamo sicuramente di evitare. Accompagnando dei lavori drammaturgici, la nostra scelta di danza è sicuramente simbolista e basata su questi contenuti dell’anima. Non necessariamente la danza è virtuosismo, la carica emotiva può essere espressa anche solo attraverso un gesto.    

Qual è il connubio possibile tra libertà espressiva e tecnica?

Il connubio possibile prevede una premessa: avere a disposizione una reale tecnica e reali strumenti comunicativi. Essendo così ampio il settore, sia in ambito prettamente comunicativo che in ambito coreutico in relazione alle tecniche performative, forse l’unica strada percorribile è quella di associare di volta in volta, a seconda dei contenuti, delle espressioni e delle esigenze sceniche di un regista o di un coreografo determinati usi di determinate realtà. Il nostro obiettivo è smettere di chiudersi in linguaggi singoli che a lungo andare diventano asettici, c’è la volontà di aprirsi ad un linguaggio che non sia “un linguaggio”, “il linguaggio”, ma un linguaggio potenzialmente in essere.

In che modo Vi.D si fa portatore di significato e di quali significati?

Ciò avviene sicuramente attraverso la drammaturgia. Le nostre drammaturgie sino a oggi sono state sostanzialmente elaborate attraverso un forte esistenzialismo, una ricerca del sé. Il tentativo che tuttora ci vede protagonisti è quello di abbattere i limiti dell’individuo e le strategie stereotipate secondo le quali noi in società cerchiamo di essere qualcosa che non siamo. Il nostro più grande sforzo è demolire questa esigenza di nascondersi dietro delle maschere e per questo potremmo affermare che è molto presente l’elemento della “violenza” nel nostro teatro, che consiste nel desiderio di pugnalare metaforicamente il pubblico, di creare uno stato di stress emotivo tale che gli spettatori si sentano obbligati a riflettere.

Il rapporto di comunicazione col pubblico…

È un rapporto difficile, soprattutto per il territorio su cui abbiamo iniziato il nostro percorso, che è quello campano. Sin dall’inizio ci siamo resi conto che la prima esigenza non era “fare arte”, ma educare il pubblico all’arte. Ci siamo spesso ritrovati una sorta di animali feroci nelle poltrone rosse della platea. In questo percorso ci siamo resi conto che una serie di linguaggi non erano adatti alla comprensione totalizzante a cui aspiravamo. Ciò che ci ha salvati è stato costruire emozioni vere, che prescindono dai contenuti e che possono toccare chiunque, anche in maniera inconsapevole, attraverso una serie di elementi che esistono e che non possono non essere osservati anche da chi non li comprende. Questa è la vera forza della danza.

Il vostro ultimo lavoro è stato “Rebus in red”… qual è la sua chiave di lettura?

Rebus in red è l’ennesimo lavoro in chiave esistenzialista, metaforicamente potrebbe essere descritto come una luce, una luce rossa, e quantomeno della luce conserva la dinamica e la velocità di colpire. Racconta di un disagio, un disagio che non ha un nome, un disagio che cambia a seconda di chi osserva quella luce e soprattutto ci racconta del tempo, ci racconta il rapporto di ognuno di noi tra il proprio sé e il proprio tempo. L’obiettivo a cui aspiriamo è la consapevolezza.  L’intento di Rebus in red – che sostanzialmente racconta di un’incognita presente in ciascun individuo e che cambia a seconda degli individui e si riconosce negli uni e negli altri per la natura stessa di quell’incognita –  non è il banale invito ad affrontare se stessi, bensì l’acquisizione della consapevolezza e, mai come in questo caso, l’arte coreutica è una dinamica fondamentale per comunicare al di là della complessità del linguaggio della parola. Il gesto è comunicazione allo stato puro. Il teatro è corpo e l’uso che se ne fa di quel corpo. Alla base di questo lavoro c’è anche l’ambizione grotowskiana di costruire un percorso individuale dell’attuante in scena, il quale in un certo senso si disinteressa del pubblico e questo forse è l’aspetto che più dà fastidio al pubblico incolto. Si disinteressa dei suoi gusti, dei suoi interessi, ma tuttavia si interessa del suo percorso, è quasi come una luce appunto, un messaggio, è come un miracolo che si compone e  si decompone sulla scena e resta un percorso individuale, che non può essere contaminato da chi siede in platea, è un percorso che merita rispetto e che può essere visto come un’osservazione. Come guardare un quadro. 

Prossimi progetti

Abbiamo in cantiere due progetti inediti e contiamo comunque di far conoscere meglio i nostri lavori già messi in scena.

Un messaggio conclusivo

La speranza che il teatro nella sua totalità torni a vivere e a scuotere le anime, torni a parlare di contenuti, torni a costruire intorno a sé un senso.

 Lorena Coppola

Foto Bruno Raia

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