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Preljocaj coreografa magistralmente il mistero [RECENSIONE]

Nello splendido Teatro Ponchielli di Cremona la sala piena in ogni ordine di posto è a mezze luci, il sipario è chiuso, una musica metallica sale in crescendo sempre più forte… inizia così l’opera coreografica di portata eccezionale Requiem(s) a cura di Angelin Preljocaj con il suo straordinario Ballet Preljocaj.

La scena si apre su un palco avvolto nel fumo con tre danzatori ingabbiati nell’aria in una sorta di giganteschi turiboli in metallo da dove fuoriesce l’incenso nel più classico dei riti cristiani. Sotto altre figure allungano le mani verso l’alto cercando di attrarre a sé i sospesi come fosse un culto antico, dove la simbologia assume un valore di adorazione, di preghiera, di grazia, di rispetto e di devozione.

Questo toccante spettacolo, creato nel 2024, esplora i temi universali della vita, della morte e della spiritualità. Angelin Preljocaj lo crea su sé stesso, ponendo in luce le personali esperienze, celebrando la vita e tributando un ricordo alle persone a lui più vicine ormai scomparse. I vari quadri, quasi fossero una funzione religiosa tra sacro e profano, tra laico ed ecclesiastico, aprono le porte alla meditazione e alla riflessione sul senso profondo della perdita nonché della riconciliazione col dolore.

I danzatori e le danzatrici del Ballet Preljocaj sono uno dei punti di forza. Perfetti, non lasciano nulla al caso, si calano con convinzione e maturità nel ruolo a loro affidato. Restituiscono una performance di notevole impatto estetico con suggestioni evocative, sviscerando una ferrea tecnica, una duttilità calzante, una energia che emoziona e coinvolge l’astante. I loro movimenti sono lo specchio ideale per rischiarare o rabbuiare l’evoluzione dei sentimenti. La performance gode anche di attimi dove la leggerezza di pensiero punteggia l’esplorazione introspettiva, rievocando la bellezza e la delicatezza della vita.

La musica — composta da un mix di opere sacre, canti medievali e creazioni contemporanee firmate da W.A. Mozart, György Ligeti, System of a Down, J.S. Bach, Hildur Guðnadóttir, Olivier Messiaen, Georg Friedrich Haas, Jóhann Jóhannsson, 79D accompagna gli artisti negli insondabili misteri del soffio vitale. L’illusione coreografica rapisce, è incalzante, le movenze sono fresche e smaglianti, stuzzicano l’immaginazione nella talvolta ingannevole semplicità dei passi dove al contrario si celano forza, fatica e duro allenamento.

Viene naturale un parallelismo con il pensiero racchiuso nell’opera filosofica “Essere e tempo” di Martin Heidegger dove si parla di una “delimitazione dell’analisi esistenziale della morte rispetto ad altre interpretazioni possibili del fenomeno”. Preljocaj infatti distingue il “morire” dal semplice “cessare di vivere”. Palesa tramite didascalie in italiano, tradotte da voci in francese, eventi particolarmente intimi e circoscritti come la morte di un figlio per una madre a temi globali come le guerre o l’Olocausto nelle parole di Primo Levi. L’essere umano per i 90 minuti dell’intenso balletto non assume la morte come orizzonte del suo vivere ma condensa la partecipazione determinandola nell’ottica totale dell’esistenza umana.

Si fa riferimento ad un conflitto interiore del coreografo il quale attraverso l’arte della danza si pone delle domande sul significato e sullo scopo della vita. I vari quadri con le maestose luci di Éric Soyer, i conturbanti costumi di Eleonora Peronetti dalla palette cromatica distintiva e i video ben definiti di Nicolas Clauss (di cui il coreografo ne fa un uso troppo abbondante e talvolta distraente) si alternano a momenti carichi di tensione e a evidenti certezze sull’istante vissuto. Chi siamo realmente? Cosa desideriamo dalla vita? Cosa possiamo lasciare in eredità ai posteri quando non ci saremo più? Preljocaj non vuole offrire al pubblico una sentenza ma bensì una osservazione. E lo fa usando l’iconografia e uno sguardo rivolto all’immenso.

Ancora una volta il grande coreografo francese di origine albanese sorprende mescolando magistralmente danza classica e contemporanea con accenti di pantomima, circumnavigando la ricerca del gesto tra esplosioni di energia e momenti di pura lentezza. La scena è scarna, il nero domina sui restanti colori, l’illuminazione crea effetti netti ed incisivi. Ogni brano musicale è collegato ad uno squarcio e la sperimentazione delle dinamiche, da quella più semplice come il camminare o il correre, si trasforma in complessità più elaborate, lasciando affiorare ininterrottamente la concordia.

La danza è praticamente senza sosta, e il cast composto da diciotto esecutori riflette una luminosa e strutturata letizia (Teresa Abreu, Lucile Boulay, Elliot Bussinet, Araceli Caro Regalon, Leonardo Cremaschi, Mirea Delogu, Lucia Deville, Antoine Dubois, Afonso Gouveia, Chloé Fagot, Erwan Jean-Pouvreau, Ygraine Miller-Zahnke, Agathe Peluso, Romain Renaud, Mireia Reyev Valenciano, Redi Shtylla, Owen Steutelings, Micol Taiana). La loro coreutica è matematica, è architettata da nitidi contrasti con visioni acute.

Requiem(s) trascina il pubblico nelle profondità della sussistenza cimentandosi in un territorio da Preljocaj ancora inesplorato, quello del lutto ma anche del portento della vita. Una delle sue coreografie più belle in quanto il “viaggio” è poetico, interessante, concettuale. Lo stile e la raffinatezza francese sono evidenti e coinvolgenti.

Nel finale Preljocaj risolve l’enigma presentandolo come una tappa naturale del percorso umano trasformando l’incertezza in crescita.

La transizione tra il giorno e la notte, tra il terreno e lo spirituale, tra la realtà e il limbo è una peregrinazione interiore che, forse, dovremmo intraprendere tutti, per riconnettersi con ciò che è veramente responsabile.

Preljocaj coniuga eleganza senza tempo, modernità, ricerca e innovazione, portando alla ribalta un’azione teatrale che resterà nella memoria di chi ha avuto la fortuna di ammirarla.

Michele Olivieri

Foto di Michele Olivieri

www.giornaledelladanza.com

© Riproduzione riservata

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