Jorge Donn è stato uno di quei rari artisti che trasformano il proprio corpo in un linguaggio universale. Ogni suo movimento sembrava sorgere da un luogo segreto, come se la musica trovasse in lui un corpo disposto non solo a interpretarla, ma a trasformarla in esperienza viva. Vederlo in scena era come assistere all’invenzione di un dizionario sconosciuto, eppure capace, all’istante, di farsi comprensibile a chiunque. La sua eleganza non era un fatto estetico: era un modo di abitare il mondo. C’era in Donn una specie di trasparenza ardente, un equilibrio raro tra vulnerabilità e potenza, tra abbandono e controllo. Era capace di rendere un passo semplice un atto di rivelazione, un gesto minimo un varco emotivo. Il suo Boléro non è rimasto nella memoria collettiva per virtuosismi o per difficoltà tecniche, ma perché in quella spirale di movimenti, sempre uguali e sempre diversi, Donn riusciva a raccontare qualcosa dell’essere umano: il desiderio, l’attesa, la febbre, l’ascesa. Era una metamorfosi più che una coreografia. Oggi, ricordare Jorge Donn significa ricordare che la danza può essere un luogo di verità: uno spazio in cui il corpo, invece di nascondere ciò che siamo, lo rivela con una sincerità quasi disarmante. Donn ha ...
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