C’è un momento, nel buio ovattato di un teatro, in cui il silenzio si spezza solo dal fruscio di un tutù. Poi, un passo: la ballerina si solleva sulle punte, e tutto il mondo trattiene il respiro. Quell’istante di sospensione — fragile e potente insieme — racchiude secoli di arte, fatica e ingegno. Ma come sono nate, davvero, le punte? Nel Settecento, quando la danza era ancora un gioco di grazia e non di levitazione, le ballerine indossavano semplici pantofole di seta. Si muovevano leggere, ma i loro piedi restavano saldamente ancorati alla terra. Fu l’epoca delle pionieristiche Marie Camargo e Marie Sallé, donne audaci che liberarono la danza dalle gabbie del costume barocco, ma ancora non dalle leggi della gravità. Tutto cambiò nel 1832, quando Marie Taglioni, in La Sylphide, salì sulle punte con la grazia di un essere non terreno. Non fu solo un gesto tecnico: fu un atto poetico. Le sue scarpe erano tutt’altro che confortevoli — sottili, senza rinforzi, più vicine a delle torture che a strumenti di scena. Ma in quell’ascensione si compì una metamorfosi: la ballerina diventava spirito, l’umano diventava sogno. Da quel momento, il volo divenne la missione del balletto. Le punte non ...
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