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Un weekend con… Carla Fracci l’ultima diva del balletto internazionale

Carla Fracci - foto di Paolo Bonciani

In tutto il mondo Carla Fracci ha interpretato il suo alato “cavallo di battaglia”, la prediletta Giselle incalzando amore, dolore, gioia, passione, sentimenti forti che l’hanno resa celebre e fatta divenire una delle più grandi ballerine del Novecento. “L’eterna Giselle” è considerata oggi una delle più grandi interpreti di ogni tempo, acquistando fama di étoile di prima grandezza, erede di Maria Taglioni, “Diva” del balletto e “Musa” della danza. A “Expression”, la sua vita di artista e di donna.

Come è nata per Carla Fracci la passione per la danza?

È stato un puro caso. Alcuni amici di famiglia, vedendomi ballare il tango e il valzer, dissero ai miei genitori: “Perché non la iscrivete alla scuola di ballo del Teatro alla Scala?”. Ero l’attrazione della serata perché vedere una bambina ballare queste danze con gli adulti, non era una cosa normale. Così è iniziato tutto.

Che ricordo ha della sua infanzia?

Mio padre faceva il tranviere a Milano. Ho vissuto fino a sette anni in campagna, giocando all’aria aperta in libertà, a piedi scalzi, insieme a mia madre, ai miei nonni e ai miei zii, mentre mio padre era in guerra. Abitavamo in un piccolo paese in provincia di Genova, ma per un periodo sono stata anche in provincia di Mantova.

Che ricordo ha dei giorni trascorsi alla scuola di ballo della Scala?

Vista la mia infanzia, il teatro inizialmente è stato come una prigione. Abituata al tango e al valzer, ho vissuto come una costrizione anche cominciare gli studi di danza classica. A dodici anni però, mentre facevo una comparsa nel balletto “La Bella Addormentata”, vedendo Margot Fonteyn mi è scattata dentro una molla. Questo episodio è stato il sole che mi ha illuminato. In quell’istante ho capito anche l’importanza di studiare e impegnarmi con sacrificio, per arrivare al suo livello.

Talento a parte, come si diventa Carla Fracci?

Sono stata scelta per caso dalla direttrice del ballo della Scala, Ettorina Mazzucchelli. Feci l’esame di ammissione al primo corso, ero nel terzo gruppo. Alla fine la direttrice, passando in rassegna tutte le bambine per rivedere quelle su cui era in dubbio, mi disse in milanese: “Pigliamo anche questa. La gà un bel faccin”. Ma dopo essere stata presa riscontrai molta incertezza dagli insegnanti perché ero molto debole, non avevo un bel piede, ero gracile e anche svogliata. Come ho ricordato prima, per me fare la sbarra era una prigione. Mi mancavano il valzer e la mia campagna, la vita che avevo lasciato per frequentare la Scala. E così ho lavorato tanto, tutti i giorni. È questo l’unico segreto: c’è solo il lavoro!

Quale aspetto è stato importante nella sua crescita di prima ballerina?

Danzare il repertorio classico, è stato fondamentale ma forse lo è stato ancora di più la mia capacità di rinnovarmi, di trovare nuovi personaggi da interpretare e proporre. Importante è stato anche il decentramento che mi ha portato a danzare in paesi piccoli, nelle piazze popolari e in minuscoli teatri.

Quale fu per Lei il momento iniziale determinante?

«L’incontro con Anton Dolin, che mi scelse per un evento storico: l’interpretazione con Alicia Markova, Yvette Chauviré e Margaret Scranne, le tre più importanti ballerine del momento, del “Grand Pas de quatre” a Nervi. Avevo solo diciotto anni!».

Che cosa ha rappresentato per lei l’incontro con Erik Bruhn e poi con Rudolf Nureyev?

Di Erik Bruhn ho un ricordo bellissimo, è lui che mi ha portato in America, prima per una trasmissione televisiva, poi al Metropolitan di New York, per interpretare il ruolo di “Giselle” al suo fianco. Da Rudolf invece ho ricevuto tanti insegnamenti, come del resto deve accadere in una coppia. Con lui avevo molto feeling.

In tanti anni di carriera, che cosa è stato realmente difficile?

Resistere, lottare, affrontare i momenti bui, andare oltre… Praticamente tutto, anche se mi considero fortunata per la carriera che ho avuto. Fondamentale è stato il supporto di Beppe, che non è stato soltanto il marito ma il compagno, l’intellettuale, il regista, l’ideatore di centinaia di occasioni e di creazioni indimenticabili.

Lei è un mito della danza femminile, così come Nureyev lo era per la danza maschile. Come dividevano la scena due personalità così forti artisticamente?

Rudolf non aveva un carattere facile, ma con lui ho trascorso dei momenti straordinari. I danzatori sono diversi e, quando danzano, hanno l’opportunità di scambiarsi emozioni. Lui aveva una forte personalità, possedeva un carisma e un’energia che accendeva il palcoscenico. Ho ballato molto con lui, anche nelle sue coreografie era un tipo esigente. Ricordo che una volta, nel passo a due della “Bella Addormentata”, dovevo fare due pirouettes con una precisa chiusura; io ne feci due e mezzo, ritrovandomi di fronte a lui; Rudolf mi prese e mi fece tornare indietro, perché le pirouettes dovevano essere due!

Come convivono in lei il mito e la donna Carla Fracci?

Non bisogna perdere mai il senso della dimensione, siamo delle persone che vivono il quotidiano. La danza è la mia professione, il mio lavoro. Cerco di rispettarlo, con amore e professionalità. Il successo non mi ha dato alla testa ma è la conferma di un lavoro svolto al meglio e di questo sono molto onorata e gratificata.

Quanto è importante la famiglia?

Molto. Io lo dico e lo ripeto: il successo più grande della mia vita è mio figlio Francesco perché sono soprattutto una donna e una madre. Non bisogna mai tralasciare le sensazioni della vita di tutti i giorni. Chiaramente l’essere artista comprende questi valori. Io porto sul palcoscenico il mio essere donna e le mie esperienze.

Come stava dicendo, un’altra figura preziosa della sua vita è il maestro Beppe Menegatti…

Si, mio marito è stata ed è una figura importantissima. Come donna ho avuto la fortuna di incontrare un uomo di teatro, di grande sensibilità e genialità. Lui mi ha seguita negli anni, sin da quando ero una ragazza nel famoso “Pas de Quatre” che feci a Nervi, in cui ebbi l’onore di incontrare Anthony Dowel, che mi disse: “Tu sarai una grande Giselle”. Beppe mi è stato accanto nella mia carriera, nei viaggi che facevo per lavoro. Durante le mie tournée all’estero, mi portava sempre anche mio figlio. Tutto questo calore familiare ha contribuito al mio successo.

Un bilancio del suo ruolo di direttore del corpo di ballo dell’Opera di Roma?

È stato un ruolo difficile ma bello. Mi ha permesso di lavorare con i giovani che sono il futuro, di dare loro degli insegnamenti. Tutto questo mi ha gratificata molto. È bello scoprirsi in un ruolo che non pensavi di avere; bisogna essere anche un po’ psicologi, saper dare consigli, infondere forza e trasmettere passione ai nuovi danzatori.

Negli ultimi giorni svariate agenzie di stampa hanno reso pubblica la notizia di fondare una Compagnia di Balletto Nazionale. Cosa mi dice in merito?

Sì, è un’idea che porto avanti da anni perché credo sia essenziale per le giovani leve e per essere a pari con l’estero. Sono felice che il sindaco di Roma Gianni Alemanno mi abbia invitata per parlare di questo progetto, che spero si realizzi. Per me è un grandissimo impegno artistico e morale, che farà piacere a tanti giovani, costretti ad andare a ballare all’estero ma che tornerebbero subito in Italia. Dovrebbe esserci presto un nuovo incontro con il sindaco e il sovrintendete del Teatro dell’Opera di Roma.

Cosa vorrebbe che rimanesse di lei quando smetterà di calcare le scene?

Beh, spero di rimanere a lungo. Vivo alla giornata. È importante fare i progetti, ma bisogna anche essere pronti a quello che ci riserva il domani. È sempre stato così per me, sin da piccola: essere sempre pronti a tutto. Mai stare su un albero a cantare!.

Il suo rapporto con lo specchio?

Lo specchio è contemporaneamente il fratello buono e quello cattivo. Mai annegare nello specchio come fece Narciso. E guai anche a rompere lo specchio come fece la scimmia nella celebre favola. Ho usato l’espressione “fratello buono” perché esso ti aiuta a correggere i difetti. Ma accanto al fratello buono c’è anche quello cattivo dato che ci sono volte in cui ti fa credere che i tuoi difetti siano pregi.

Sara Zuccari

Direttore www.giornaledelladanza.com

Foto  di Paolo Bonciani

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