Dietro la leggerezza di un arabesque e la grazia di un fouetté, la danza classica cela un sistema di disciplina ferreo, quasi ascetico.
Nulla in questo universo è lasciato al caso: ogni movimento, ogni gesto, ogni respiro nasce da anni di studio, ripetizione e controllo assoluto del corpo.
Sin da piccoli, gli allievi delle accademie più prestigiose — come la Vaganova, l’Opéra o la Scala — imparano che la libertà si conquista attraverso la regola.
Le giornate iniziano con ore alla sbarra, dove il corpo viene scolpito con una precisione chirurgica.
La postura, la rotazione delle anche, l’equilibrio: tutto deve essere perfetto. Ma non si tratta solo di forma. La disciplina diventa una mentalità, un modo di stare nel mondo.
Il dolore è parte del percorso. Le punte feriscono, i muscoli cedono, ma la resilienza del danzatore è silenziosa. Nessun lamento, solo lavoro.
E l’insegnante, figura severa ma fondamentale, osserva ogni progresso con occhio critico: guida e specchio, esempio e confine.
In questo ambiente, la disciplina non è una gabbia, ma una chiave: permette al danzatore di trasformare la tecnica in espressione, la fatica in leggerezza.
È un linguaggio che si impara con il corpo, ma che cambia anche la mente.
E alla fine, quando il sipario si apre, ciò che appare è magia. Ma quella magia, chi l’ha vissuta lo sa, è il frutto di un rigore invisibile.
Michele Olivieri
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