
Nelle notti di Parigi di fine Ottocento, quando il fumo dei caffè si mescolava al profumo di assenzio, Henri de Toulouse-Lautrec trovò la sua verità. Nei gesti delle ballerine del Moulin Rouge — un salto, un sorriso, una piega del busto — egli vide l’anima inquieta della modernità.
Per Lautrec la danza non era spettacolo, ma vita allo stato puro: un corpo che sfida la gravità, un istante di libertà prima della caduta. Seduto ai tavoli dei cabaret di Montmartre, disegnava febbrilmente, come se temesse che la musica finisse prima del suo tratto.
Le sue donne — Jane Avril, La Goulue, Yvette Guilbert — non sono figure idealizzate, ma creature vive, contraddittorie, consumate dalla stessa energia che le anima.
Con linee spezzate e colori vibranti, Lautrec trasformò il movimento in ritmo visivo. Le sue litografie non descrivono: pulsano. Ogni manifesto è una danza che si espande nello spazio, dove il nome di un’artista diventa coreografia tipografica e la luce gialla del cabaret diventa battito del cuore.
Dietro il clamore del can-can e le risate della folla, Lautrec dipinse anche la malinconia del dopo: la stanchezza, la solitudine, il corpo che si spegne. Forse perché conosceva bene il prezzo della fragilità, egli amò così profondamente il movimento — unico antidoto all’immobilità del dolore.
A differenza di Degas, che cercava la perfezione del gesto e la quiete dell’attesa, Lautrec celebra la perdita di controllo. Il suo segno rapido, nervoso, quasi graffiato, restituisce l’energia elettrica della notte parigina. Le sue figure non posano: esplodono.
Con i suoi celebri manifesti — Moulin Rouge: La Goulue (1891), Jane Avril au Jardin de Paris (1893) — Lautrec trasformò l’arte commerciale in arte pura.
Nelle sue opere la danza è il respiro della vita moderna: disordinata, intensa, breve. E, come la notte di Montmartre, non smette mai davvero di finire.
Michele Olivieri
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