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Intervista a Oliviero Bifulco per il nuovo Schiaccianoci

Sabato 20 dicembre e domenica 21 dicembre 2025 l’amato titolo del grande repertorio Schiaccianoci rivive al Teatro Fraschini di Pavia con l’intrinseca magia della fiaba grazie alla nuovissima coreografia di Oliviero Bifulco. In questa versione, il balletto tradizionale prende vita, mantenendo i canoni classici ma arricchito dal tocco contemporaneo del coreografo pavese, che esplora il confine tra realtà e fantasia. Il Corpo di Ballo è composto da alcuni danzatori di Étoile Ballet Theatre, compagnia fondata da Ines Albertini e Walter Angelini, e da una selezione di talentuosi ballerini freelance tra cui lo scaligero Andrea Risso e Carola Puddu nei ruoli principali. A supporto della performance, l’Orchestra Giovanile Pavese diretta da Biagio Micciulla accompagna dal vivo lo spettacolo. In occasione del debutto, in prima nazionale, abbiamo incontrato il coreografo Oliviero Bifulco che svela in esclusiva ai nostri lettori alcuni aspetti dell’inedito e atteso allestimento.

Carissimo Oliviero cosa ti ha spinto a confrontarti con un titolo così leggendario come Lo Schiaccianoci?
Probabilmente, se fosse dipeso solo da me, non so se avrei avuto subito il coraggio di farlo. L’idea era nata mentre, come consulente per la danza, avevo proposto di avere in stagione uno Schiaccianoci che potesse diventare un rito per la città, come accade in molte città del mondo. Il direttore Francesco Nardelli ha avuto però l’intuizione — e il coraggio — di spingersi oltre, mettendo insieme un percorso costruito negli ultimi anni: una serie di piccole produzioni di danza nate come concerti con accompagnamento dal vivo, la creazione di un’Orchestra Giovanile in collaborazione con diversi enti musicali del territorio, e la mia presenza come artista residente al Teatro Fraschini. L’idea è stata quella di produrre questo titolo con le nostre forze. Personalmente sono cresciuto in un ambiente in cui il repertorio ha un peso enorme, e per questo all’inizio ero molto spaventato. Lo Schiaccianoci è un classico che amo profondamente, e confrontarmici comporta una grande responsabilità. Ma proprio quella paura si è trasformata in una spinta creativa decisiva. È stato un equilibrio continuo tra desiderio e senso di responsabilità: Lo Schiaccianoci è quasi un patrimonio collettivo, e proprio per questo mi sono chiesto a lungo che senso avesse raccontarlo oggi.

In che modo la tua versione si distingue dalle interpretazioni più tradizionali?
La mia versione rispetta la struttura narrativa e il libretto, ma cambia lo sguardo. Non volevo attualizzare il titolo in modo forzato, né replicare versioni storiche: ho cercato piuttosto la verità del racconto. La festa iniziale, per esempio, va oltre la pantomima tradizionale. Ho voluto costruire un mondo per ogni personaggio, richiamando dinamiche che possono realmente accadere durante una festa: relazioni, ironia, desideri, piccole fratture. Ho sentito anche l’esigenza di riequilibrare una consuetudine diffusa: un primo atto spesso molto drammaturgico e poco danzato, seguito da un secondo atto ricchissimo di danza ma povero di racconto. Mi dispiaceva interrompere la carica emotiva con cui il pubblico arriva alla fine del primo atto nei confronti di Clara, e per questo ho scelto di far proseguire il suo viaggio anche nel secondo. Tradizionalmente il secondo atto è una sequenza di danze “etniche”. Mi sono chiesto cosa potesse significare davvero “esotico” nel 1892. Più che una volontà di marcare differenze culturali, credo fosse un modo per evocare il lontano, il possibile, qualcosa che allora non era accessibile come lo è oggi. Per questo ho scelto di leggere quelle danze non come esotismi o rappresentazioni di popoli lontani, ma come proiezioni dell’immaginazione di Clara: stati d’animo, figure affettive, trasformazioni delle persone che fanno parte della sua vita. La differenza forse sta qui: non nel tradire la tradizione, ma nel tentativo di farla parlare in modo più onesto al presente.

Qual è stata la prima immagine o idea da cui è partito il tuo processo creativo?
Tutto è partito da una frase di Hoffmann: «Nella vita reale i fenomeni assumono forme ben più meravigliose di quanto la fantasia più accesa possa inventare». Da lì è nata l’idea di cercare il “folle” dentro la quotidianità, senza dichiararlo apertamente magico. La prima parte dello spettacolo vive su questo confine: una festa domestica, concreta, familiare, nella quale però si insinuano dettagli stranianti. La magia non arriva come evasione, ma come evoluzione — o necessità — dello sguardo di Clara. È rimasta costante l’idea che la magia non sia mai nei fatti in sé, ma nel modo in cui scegliamo di guardarli.

Come hai lavorato sul personaggio di Clara? Che figura emerge nella tua lettura?
Clara, per me, è una forma di bene assoluto. Non nel senso ingenuo del termine, ma come scelta consapevole: il desiderio di amore e la volontà di guardare il mondo sotto una luce più generosa di quella che spesso ci viene offerta. Ha una sensibilità profonda verso gli altri, una capacità di ascolto e di empatia che forse tutti possediamo, ma che richiede impegno, attenzione, lavoro su di sé. È una sensibilità faticosa, perché espone alla bellezza quanto alla sofferenza della vita. Sono convinto che, al di là delle eccezioni inevitabili, molto dipenda dalle scelte che facciamo: Clara sceglie di guardare la realtà con fiducia. Si innamora delle persone che le stanno accanto, anche di quelle che inizialmente la spaventano. Per questo, nel secondo atto, ritrova le stesse figure della sua vita quotidiana, ma trasformate dal suo sguardo: le amiche diventano eroine nella danza spagnola, le governanti creature lunari nella danza araba, Fritz un cosacco volante nella danza russa. Volevo sottolineare proprio la capacità dell’infanzia di rendere straordinario ciò che ci è familiare.

Come hai coinvolto i danzatori nel processo creativo?
Ho chiesto a ogni interprete di non essere una figura laterale attorno a Clara, ma una persona con un mondo interno. Ognuno ha costruito una biografia, un desiderio, un modo personale di abitare la scena, anche se il pubblico non ne conoscerà mai i dettagli. Questo lavoro è stato fondamentale soprattutto nel primo atto: volevo evitare una pantomima convenzionale e creare una festa viva, credibile, abitata da individui reali. Il fantastico, per me, emerge proprio perché il reale è estremamente concreto. Un’altra sfida importante è stata la composizione del cast. La compagnia che ci ha ospitato, Étoile Ballet Theatre, diretta da Ines Albertini e Walter Angelini, ha danzatori prevalentemente formati nel linguaggio classico. Per questa produzione ho voluto affiancare interpreti provenienti dal contemporaneo. L’equilibrio tra questi due mondi è sempre delicato, ma la drammaturgia de Lo Schiaccianoci mi ha permesso di giocarci con ironia: il balletto classico resta legato al mondo dei bambini e del fantastico, mentre il resto della scena utilizza la formazione accademica in modo più libero, cercando un linguaggio onesto e attuale. Clara è interpretata da Carola Puddu, sognatrice, coraggiosa e piena di speranza, capace di vedere il bello in ciò che la circonda. Il Principe è Andrea Risso: più che una nobiltà di titolo, ho cercato con lui una nobiltà nel modo di essere, nel gesto e nella presenza.

Qual è il messaggio che indirizzi agli spettatori?
Spero innanzitutto che il pubblico riesca a vivere la magia del Teatro e del Natale. Ma soprattutto che al termine prevalga quella sensazione che la magia della vita sia sempre lì, anche quando non la cerchiamo. Che la fantasia non venga percepita come una fuga dalla realtà, ma come un modo per guardare meglio ciò che abbiamo vicino. Mi piacerebbe che la trasformazione — anche quando fa paura — venisse riconosciuta come una possibilità: di bellezza, di crescita, di apertura. In fondo, Lo Schiaccianoci ci ricorda che cambiare sguardo è spesso il primo atto di coraggio.

Hai scelto di restare fedele alla struttura narrativa originale o hai introdotto cambiamenti significativi nella storia?
Ho scelto di restare fedele alla struttura narrativa e al libretto. Non mi interessava riscrivere la storia. Il cambiamento non sta nella sequenza degli eventi, ma nel punto di vista: ciò che vediamo, soprattutto nel secondo atto, non è tanto un viaggio nel mondo, quanto un viaggio nell’immaginazione di Clara. Ho deciso di sottolineare la presenza di alcuni personaggi già presenti nella fiaba originale, come le governanti, che qui diventano una sorta di ponte tra il mondo degli adulti e quello dei bambini. Anche il valzer dei fiori assume un nuovo significato: diventa una festa iniziale rivissuta da Clara così come forse la vorrebbe, carica di bellezza e di danza, e popolata dalle stesse figure genitoriali che nel primo atto, nella loro sbadataggine adulta, rompono il suo regalo più caro. Questo slittamento dello sguardo permette alla storia di restare pienamente riconoscibile e, allo stesso tempo, di parlare con maggiore chiarezza al presente, senza forzature.

Che rapporto hai instaurato tra la coreografia e la musica di Čajkovskij?
Per me la musica è fondamentale. Se riuscissi anche solo in parte a “far vedere” la musica, mi sentirei un coreografo felice. Questa partitura è già un racconto: una voce che parla, che suggerisce immagini, amore, paura… Inutile che io dica che è incredibile. È stata la guida costante di tutto il processo creativo e la mia priorità è stata quella di rispettarla profondamente. Abbiamo lavorato a partire dalla versione diretta da Simon Rattle con i Berliner Philharmoniker, ma la vera sfida sarà portare tutto questo in scena con la musica dal vivo. Gli spettacoli saranno accompagnati dall’Orchestra Giovanile Pavese, diretta da Biagio Micciulla. È qui che entra in gioco la magia del teatro: il momento in cui tutte le maestranze — musicisti, danzatori, tecnici — fanno convergere il lavoro di mesi in un’unica serata.

Ci sono temi contemporanei o personali che hai voluto far emergere?
Sicuramente il tema della gratitudine verso le persone che ci amano e ci formano. Clara sogna e cresce grazie alle relazioni che la sostengono, grazie a chi le permette di diventare ciò che è. È un tema che mi appartiene profondamente e che considero una delle cose più preziose della vita. C’è poi il tema dell’essere bambini. Credo che conservare quella parte di sé sia una delle chiavi per restare in equilibrio nel mondo di oggi. Non si tratta di ingenuità, ma di una qualità dello sguardo: curiosità, apertura, capacità di stupirsi. Quando perdiamo questa dimensione, rischiamo di muoverci in automatico. È lì, invece, che risiede la nostra possibilità più autentica di amare.

Quali sono state le principali sfide artistiche nel reinterpretare un balletto così amato dal pubblico?
Averlo ballato diverse volte è stato allo stesso tempo un aiuto e un limite. Ho nel corpo e nella memoria tante versioni diverse, e questo inevitabilmente mi ha influenzato. Allo stesso tempo, conoscere la partitura quasi a memoria mi ha permesso di orientarmi nella musica con naturalezza. La struttura del balletto è nata rapidamente, nel giro di due settimane di lavoro. La vera difficoltà è arrivata dopo: andare in profondità, rendere coerente ogni scelta, ogni dettaglio. Una cosa era chiara fin dall’inizio: non volevo distruggere il libretto. Non ne sentivo né il diritto né il desiderio. Ma sapevo anche che limitarsi a “imitare” la tradizione non sarebbe stata la direzione giusta. Il mio obiettivo è stato quello di rendere leggibile la verità del racconto, parlando ai bambini attraverso la magia e agli adulti attraverso l’autenticità.

Che ruolo hanno scenografie, costumi e luci nella costruzione dello spettacolo?
Il team creativo ha lavorato in tempi molto rapidi, ma con un’idea comune chiara fin dall’inizio: tenere insieme un forte realismo e una magia dichiarata, quasi esagerata, ma sempre credibile. Tutto doveva sembrare possibile, anche quando diventava straordinario. Con il light designer Oscar Frosio c’è una collaborazione pluriennale. Conosco profondamente il suo sguardo e amo il tocco di eleganza che riesce a dare ad ogni immagine. Ormai non c’è quasi più bisogno di spiegarsi: il lavoro nasce da una fiducia e da un linguaggio condivisi. Con lo scenografo Riccardo Sgaramella, invece, è stato il primo progetto insieme. Ha una capacità molto diretta, quasi pop, di comunicare per immagini, e credo sia riuscito ad aggiungere quella modernità capace di parlare in modo semplice e immediato a tutti, bambini compresi. I costumi, firmati da Maria Barbara De Marco e Vittoria Papaleo, hanno completato il quadro. Anche per loro la vera sfida è stata calibrare il classico con il contemporaneo: attraverso un uso misurato del surrealismo hanno dato il tocco finale, rendendo i personaggi riconoscibili ma mai scontati.

A quale tipo di pubblico si rivolge questa versione?
Mi piace pensare che sia una versione trasversale. Chi conosce bene il balletto o ha visto molte versioni di Lo Schiaccianoci ritroverà una storia rispettata, ma attraversata da uno sguardo più contemporaneo. Chi invece si avvicina per la prima volta a questo titolo potrà lasciarsi portare dalla magia del periodo più magico dell’anno, senza la sensazione di dover possedere codici o riferimenti. In fondo, Lo Schiaccianoci funziona davvero quando riesce a parlare a età e sensibilità diverse nello stesso momento. Questa era la mia ambizione.

In che modo questa creazione dialoga con il tuo percorso artistico?
Direi che contiene molto di ciò che sono oggi. Provengo dal balletto classico, un linguaggio per cui nutro un rispetto profondo e che amo sinceramente. Proprio per questo ho sentito il bisogno di calibrarne l’uso con grande attenzione: è un linguaggio potentissimo, ma va maneggiato con cautela. Il contemporaneo, invece, mi ha permesso di giocare di più con l’ironia, con il tempo, con la musica, e di mettere in discussione alcune certezze. Confrontarmi, a trent’anni, con un titolo come Lo Schiaccianoci è stata una sfida importante. Non ho cercato di dimostrare qualcosa, ma di mettere in campo tutto ciò che so fare oggi. Credo che la danza classica sia estremamente affascinante e capace di attirare un pubblico molto ampio, ma a volte rimane un mondo così perfetto da risultare distante. Il contemporaneo, al contrario, parla spesso di temi urgenti, cerca nuove prospettive, interroga il presente, e per questo crea un rapporto diverso con lo spettatore. Ma viene percepito come una nicchia. Forse il mio lavoro si colloca proprio lì: nel tentativo di colmare uno spazio tra questi due mondi, senza opporli, ma mettendoli in dialogo, cercando una verità che possa appartenere a entrambi.

C’è una scena che rappresenta il cuore della tua versione?
Ci sono due immagini, due sguardi di Clara. Il primo è all’inizio del secondo atto, quando in un mondo completamente trasformato rivede le persone che ama, riconoscendole sotto nuove forme e riempiendosi gli occhi di orgoglio e di amore. Il secondo è il finale, quando la madre torna ad abbracciarla. In quell’abbraccio, per me, c’è tutto il senso della vita.

Come pensi che Lo Schiaccianoci possa parlare al pubblico di oggi, soprattutto alle nuove generazioni?
Ricordando che la fantasia non è evasione, ma uno strumento per comprendere meglio la realtà. In un tempo segnato da distrazioni continue, Lo Schiaccianoci invita a recuperare uno sguardo capace di stupore, di attenzione e di gratitudine verso ciò che ci circonda. Alle nuove generazioni suggerisce che la trasformazione — anche quando fa paura — non è qualcosa da temere, ma può diventare una fonte di bellezza e di crescita. In fondo, crescere significa proprio questo: imparare a dare un senso nuovo a ciò che cambia.

Se dovessi descrivere il tuo Schiaccianoci con una sola parola o immagine?
Lo sguardo che ama.

Cosa speri che il pubblico porti con sé uscendo dal Teatro Fraschini dopo aver visto il tuo Schiaccianoci?
Spero che il pubblico esca con la consapevolezza che l’arte è ancora una forma potente di generazione di empatia. Che i bambini siano invogliati a continuare a sognare e che gli adulti trovino il coraggio di tornare a farlo. Che portino con sé l’idea che la magia non sia qualcosa di distante o straordinario, ma un modo di guardare la realtà con più attenzione e fiducia. Mi piacerebbe che rimanesse il pensiero che la trasformazione — anche quando è fragile o spaventosa — possa essere una possibilità di crescita, e che l’amore, nelle sue forme più semplici e quotidiane, sia ancora una forza capace di orientarci. In fondo, questo Schiaccianoci parla proprio di questo: imparare a guardare la vita con lo sguardo del bambino che è sempre in noi.

Michele Olivieri

Foto di Vito Lorusso / Oliviero Bifulco

www.giornaledelladanza.com

© Riproduzione riservata

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