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Alessandra Ferri allo specchio

Alessandra Ferri

Nel 1980, dopo un’iniziale formazione scaligera e poi londinese, entra a far parte del Royal Ballet inglese. In seno a questa compagnia, vive nel 1983 l’anno della sua affermazione: a soli diciannove anni viene promossa prima ballerina. Nel 1985, su invito di Mikhail Baryshnikov, si trasferisce all’American Ballet Theatre in qualità di prima ballerina: con questa compagnia va in tournée in tutto il mondo e recita per il grande schermo nel film “Giselle (The Dancers)” (1987) di Herbert Ross. Nel 1992 è l’unica ballerina italiana del Novecento ad essere invitata come étoile dall’esclusiva compagnia di balletto dell’Opéra di Parigi: un riconoscimento importante al quale sono seguiti altri inviti, come protagonista di Carmen e di Notre-Dame de Paris – entrambi lavori di Roland Petit.  Il repertorio ballettistico di Alessandra Ferri include tutti i classici dell’Ottocento (molto apprezzata, in particolare, è stata la sua Giselle) e i maggiori capolavori dei grandi autori del XX secolo. Fu proclamata prima ballerina assoluta nel 1992. Il titolo più alto che si possa conferire a una danzatrice.

Nel terzo appuntamento di “Allo Specchio – vizi e virtù” , Alessandra Ferri ci racconta la sua vita di danzatrice e di donna.

Domanda di rito, come è nata per Alessandra Ferri la passione per la danza?

È nata con me, credo. Mi ricordo che sin da piccola, avevo tre anni, in casa inventavo delle coreografie con la musica. Era tutto talmente naturale e spontaneo, sono sicura che la danza sia una passione innata dentro di me. Poi mi fece scattare la scintilla il primo balletto che vidi a Monza, dove i miei genitori si erano trasferiti, alla visione rimasi folgorata e chiesi alla mia famiglia di essere iscritta ad una scuola di ballo.

Talento a parte, come si diventa Alessandra Ferri?

Vivendo! Il talento “a parte” fino ad un certo punto, quello ci deve essere e ci si nasce. Le mie doti sono un dono, che mi è stato fatto, di questo ne sono consapevole e grata. Ma ci tengo a precisare che il talento per me non è una qualità fisica ma è qualcosa di immateriale che si trova dentro di noi e che ci dona la possibilità di essere grandi artisti. Il mio successo è stato il lavoro, la passione, la volontà, il coraggio e l’ambizione continua di migliorarsi sempre come fosse una conversazione continua con se stessi.

Un percorso iniziato in uno dei teatri più importanti d’Italia ed ente lirico riconosciuto nel mondo: la Scuola del Teatro alla Scala, a Milano. Cosa ricorda dei primi anni, del diploma e poi delle prime esperienze lavorative?

Io ci tengo a ribadire che sono l’unica étoile non diplomata in nessuna scuola, per cui non ho un diploma di ballo. In più ho avuto dei rapporti molto complessi con le scuole, perché ho sempre riservato un istinto molto forte di come io volevo ballare. Ovviamente questo discorso non valeva invece con l’incontro dei maestri, pensi ancora oggi ho il mio maestro personale, con cui studio tutti i giorni e lavoro da più di trent’anni. Non ho mai accettato di avere uno stile imposto da altri o di sentirmi dire come io dovevo ballare. La mia fortuna è stata quella di incontrare, quando ero giovane, grandi personalità del mondo della danza che mi hanno formato capendo il mio individualismo e il mio talento, il primo tra tutti è stato Kenneth MacMillan.

A soli diciannove anni diventa la principal dancer del Royal Ballet. Una grande responsabilità!

Una responsabilità enorme direi, ma ricordo di quegli anni la forte dedizione che avevo per raggiungere la mia missione. Certo è che non ho vissuto la mia adolescenza perché le responsabilità erano molte, pensi così giovane debuttare al Covent Garden in ruoli creati appositamente per me era una prova ardua. Però è stato tutto meraviglioso e allo stesso tempo difficile.

Lei ha danzato nei teatri e con le compagnie più importanti del mondo, c’è un espisodio o un’esperienza che le è rimasto nel cuore?

Le esperienze che ho fatto sono tutte belle e le porto nel cuore una ad una, non potrei fare altrimenti perché è il mio vissuto. Ricordo con più affetto ed emozione il mio invito come prima ballerina del ‘900 come étoile ospite, considerando anche la mia giovane età, all’Opera di Parigi. È stata una tappa importante ed un grande riconoscimento.

New York è la Sua seconda casa… Dove ha scelto di vivere con la sua famiglia?

Sì, New York è la mia seconda casa, ci vivo dal 1985; in realtà ho passato più anni in America che a Milano. La prima volta che vi andai fui invitata da Michael Baryshnikov, quando era direttore della compagnia, come étoile ospite al Metropolitan.

E Michael Baryshnikov?

È stato un incontro fondamentale per la mia carriera e per la mia formazione. È stata per me una prova molto importante, ho avuto sicuramente un coraggio da leoni, perché quando ho ballato con lui avevo ventun’anni e lui era all’apice del successo, bello, bravissimo e richiestissimo. Da Baryshnikov ho imparato molto, anche perché è molto pignolo e maniaco della perfezione. Ricordo quella bellissima Giselle per la TV di Herbert Ross, danzata insieme a lui nel 1987, in cui mi è stato riconosciuto dalla critica il ruolo e l’interpretazione del personaggio, direi, tra i ruoli romantici, quello che mi si addice di più. Perché Giselle? Perché non è una fiaba, è un personaggio vero, una donna, con tutte le sue sfaccettature e sentimenti, io amo interpretare personaggi reali, per questo mi ci rispecchio moltissimo.

Come convivono in Lei il mito e la donna Alessandra Ferri?

Io sono io… Non convivono, perché io sono semplicemente una donna e di conseguenza racchiudo un vissuto, una donna che si esprime danzando, il cui mondo è il teatro, una dimensione in cui mi sento in pace con me stessa. Poi il mito, il successo, è quello che la gente vede in me, è uno status che ti viene dato, ma non mi appartiene. Quello che mi fa più piacere è sapere che molte persone sono felici quando io ballo, e questo è per me motivo di grande gioia. Mi lusinga sapere che in molti sono stati toccati nel profondo dalle mie interpretazioni.

Il Suo colore preferito?

Mi piace molto il viola e il rosso scuro perché mi ricorda il teatro.

Un Suo sogno ricorrente?

Ora non ne ho, lo avevo quando ero più piccola. Sognavo di entrare in ascensore, precisamente quello di mia nonna, che partiva e non si fermava più! All’epoca mi angosciava, se ci penso oggi, invece, lo trovo un bel sogno.

Il Suo rapporto con la cucina? Il piatto preferito?

Mi piace molto mangiare bene. Odio cucinare, perché non sono molto brava, quindi evito di farlo, ma apprezzo la cucina degli altri. Dell’Italia mi manca molto l’aspetto dei sapori, dei colori e dei nostri prodotti.

Che cosa è la danza per Alessandra Ferri?

È lo specchio dell’anima che si muove per via del “fuoco sacro” della danza e solo chi lo possiede può sapere a cosa mi riferisco.

Un sogno nel cassetto?

Mi piacerebbe tornare alla Scala con un nuovo progetto, fare qualcosa di interessante in questa nuova fase della mia vita. Sono molto legata alla Scala, è il mio teatro come, del resto, sono legata al pubblico milanese.

Ad un certo punto della sua carriera lei decide di abbandonare le scene io ho trovato delle sue dichiarazioni «Non ho rimpianti. Sentivo l’esigenza di ritrovare me stessa, di fare la mamma a tempo pieno». «All’inizio le mie figlie erano felicissime, ma anche un po’ dispiaciute. Non era male avere una mamma famosa, mia figlia Matilde barattava le mie scarpe da punta con le amiche. Ma ora sono molto contente del cambiamento». Quale è stata la motivazione che l’ha spinta a ritirarsi e poi a ricalcare le scene?

Io sono una persona che si ascolta molto e spesso sente l’esigenza di fare delle scelte, belle o brutte che siano. In quel momento sentivo che la mia carriera era terminata, che non avevo più nulla da esprimere, era come se un capitolo della mia vita si fosse concluso. In realtà poi ogni fine ha un inizio, per questo chiudere qualcosa non mi spaventa, perché so che poi c’è una nuova strada e il mio ritorno sulle scene ne è la dimostrazione. Certo voglio ribadire che la mia carriera è terminata sette o otto anni fa, quello che faccio oggi è vivere in maniera completamente diversa, nel senso che non è più la mia carriera ma sono io in prima persona. Non è né un lavoro, né un successo o chissà cosa, è semplicemente qualcosa che è legata ad un esigenza interiore di esprimermi, con gli occhi di una donna di cinquant’anni. Ed era anche un momento in cui volevo dedicarmi alla mia famiglia, alle mie figlie vederle crescere e sostenerle. Poi, ad un certo punto, il “fuoco sacro” di ballare che ho dentro si è risvegliato, si è fatto sentire, e mi ha riportato sulle scene e lì ho capito che non potevo più soffocare la mia passione. Il mio ritorno è stato nel ruolo di “Cheri”, della coreografa Martha Clarke, una donna della mia età e quindi un ruolo calzato a pennello in cui ho esternato tutto il mio mondo di oggi, la nuova Alessandra Ferri.

Progetti per il futuro?

Sto lavorando a quattro progetti, due dei quali saranno in Italia, ad aprile sarò al Regio di Parma con una serata commissionata per me, con coreografi contemporanei, poi a Firenze con Le Jeune Homme et La Mort, un omaggio per il mio amore per Roland Petit. A maggio sarò al Covent Garden con il Royal Ballet con un balletto creato per me da Wayne McGregor su Virginia Woolf e tra un anno, precisamente a dicembre 2015, sarò ad Amburgo per una creazione di John Neumeier, sempre per me, sull’affascinante Eleonora Duse.

Alessandra Ferri allo specchio, come si vede?

Convivo con lo specchio dalla mattina alla sera, ho un buon rapporto perché so di aver fatto un percorso nella mia vita che mi ha portata a volermi bene, non è sempre stato così, e quindi mi ha aiutato a vedere nelle mie fragilità la mia bellezza.

Sara Zuccari

Direttore www.giornaledelladanza.com

Foto di Lucas Chilczuk

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