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Anna Maria Prina: “la Danza è un’Arte meravigliosa con un grande potenziale, che solo in Italia viene trascurata e non considerata”

Una carriera dedicata interamente alla danza, un percorso di vita, come è iniziato e quando?

Casualmente. Sono stata attratta dal Bando di Concorso d’Ammissione alla Scuola di Ballo affisso in via Cusani a Milano. Avevo 9 anni e dissi alla mia mamma che volevo andare “lì”. Fui bocciata all’esame d’ammissione, ma grazie alla mitica “sciura” Bianca (bidella affetta da elefantiasi e di corporatura piuttosto forte con cuore d’oro) entrai ugualmente al primo corso nel 1952. Più tardi scoprii dai documenti che ero stata bocciata perché avevo delle cicatrici sulle ginocchia, causate da cadute mentre giocavo a “rimpiattino”, dato che portavo sempre pantaloncini corti…

Quali sono stati i momenti più duri nella Sua carriera di danzatrice?

Devo dire che sono stata abbastanza fortunata. L’esempio che mi piace dare è che, finita la Scuola e dopo un anno di contratto, fui chiamata in direzione e mi fu porto un foglio dicendomi di firmare. Io firmai e misi in borsa la copia del foglio senza neppure guardarlo. Dopo un po’ mi capitò in mano e lo lessi…mi colpì la frasettina “contratto a tempo indeterminato”! Oggi non potrebbe più succedere! Due momenti duri sono stati: quando sono stata ferma per un ginocchio infortunato e i medici erano di parere l’uno diverso dall’altro. Quindi non si sapeva cosa fare. Dopo due mesi di fermo, in cui però andavo a scuola di russo e facevo disegni pubblicitari, decisi di farmi aprire il ginocchio per scoprire cosa non andasse. L’allora famosissimo e indimenticabile Prof. Paleari mi operò e mi tolse mezzo menisco. Poi il periodo di rieducazione fu piuttosto lungo perché naturalmente negli anni ’60 non c’erano metodiche come oggi per il recupero. Addirittura mi inventavo gli esercizi da sola… Altro momento duro, ma soprattutto triste, è stato al ritorno dall’ex Unione sovietica (Mosca e San Pietroburgo) dopo due anni di perfezionamento. Alla Scala non mi facevano ballare perché “ero cambiata”, ero diversa dalle altre. Per fortuna, dopo qualche tempo arrivò il coreografo Alfred Rodrigues e mi scelse, proprio per la mia diversità, per fare la Fata Buona in Cenerentola.

E i ricordi più intensi?

L’essere stata scelta da Balanchine quando ero ancora allieva, per partecipare al balletto Serenade. Il ruolo non era importantissimo, ma aveva le famose quattro pirouettes dalla quarta posizione con le braccia in terza posizione che allora pochi sapevano eseguire. Altro ricordo fondamentale è il “periodo Nureyev” che, con la sua personalità, fu uno choc positivo per tutti noi della Scala. Il suo famoso cattivo carattere con me non fu mai messo in atto, poiché io ero molto ligia ai suoi insegnamenti. Nureyev era molto esigente con se stesso e di conseguenza con gli altri. Bastava capirlo!

Quando ha deciso di dedicarsi all’insegnamento?

Dopo che ebbi la fortuna di perfezionarmi al Teatro Bolshoi di Mosca e al Marinski di San Pietroburgo. Là capii l’importanza della didattica, dell’anatomia, del rapporto con gli allievi, lo sviluppo dell’artisticità e molto altro. Quindi dentro di me pensai che mi sarebbe piaciuto molto trasmettere agli altri quanto io avevo appreso. Poi ebbi l’enorme fortuna di incontrare una persona speciale come Paolo Grassi, il cofondatore del Piccolo Teatro di Milano, persona di grande cultura e sensibilità. Lui mi scelse, insieme a John Field, allora direttore del Corpo di Ballo della Scala, per assistere lo stesso Field alla Scuola di Ballo e al Corpo di Ballo. Tutto ciò senza che io gliene avessi parlato né tantomeno glielo avessi chiesto. Poi Field lasciò improvvisamente l’Italia ed io fui chiamata a dirigere la Scuola di Ballo e, ovviamente, ad insegnare.

Quando ha ricevuto la nomina a direttrice della Scuola di ballo di un teatro così importante come La Scala l’ha sentita più come una responsabilità o come un’opportunità?

Direi le due cose: opportunità grandiosa, ma di grande responsabilità. Cose che non vanno mai disgiunte. Avere in mano creature da formare e forgiare come ballerini e come esseri umani richiede competenza e grande senso di responsabilità. Io ho sempre tenuto molto alla formazione e all’educazione come uomini e donne dei nostri allievi. Le mie soddisfazioni più grandi sono state quelle di vederli maturare non solo come artisti, ma anche come esseri umani. E poi la responsabilità di venire dopo illustri Maestri come i Direttori che mi avevano preceduto. Tengo a ricordare che io ho sempre curato ogni particolare nella scuola, dalla didattica agli spettacoli, dai collaboratori ai genitori e ho inoltre realizzato, con la sponsorizzazione del S. Paolo di Torino, la nuova sede della Scuola della Scala.

Quali sono le maggiori difficoltà che ha incontrato come direttrice di una scuola professionale di tale prestigio?

Ho incontrato le maggiori difficoltà con dirigenti poco competenti ed egocentrici, soprattutto negli ultimi anni. Non comprendevano che la buona formazione di giovani è il nostro futuro, il futuro dell’Arte della Danza. E che la Danza è un’Arte meravigliosa con un grande potenziale, che solo in Italia viene trascurata e non considerata.

Secondo Lei l’approccio più giusto per confrontarsi con i giovani allievi che si avvicinano alla danza su quali fondamenti si basa?

L’approccio giusto comprende moltissimi elementi. Per elencarli ci vorrebbe una pubblicazione! Per brevità, posso dire che elementi fondamentali sono: l’autocritica, la dedizione, la generosità, l’umiltà e la chiarezza.

 Qual è la dote da coltivare di più in un danzatore? Parlando dal punto di vista di un maestro, ritiene che dipenda da caratteristiche soggettive o che vi siano delle regole precise imprescindibili?

Le doti fisiche (elasticità, piedi arcuati, buone proporzioni, qualità di movimento) sono senz’altro fondamentali. Poi ci sono le doti personali che si possono sviluppare: volontà, dedizione, umiltà, voglia di apprendere unita alla velocità di apprendimento, determinazione, intelligenza, musicalità, capacità di concentrazione…e molte altre! E last but not least…il talento. Che è raro, ma quando c’é…ecco l’étoile.

Se un danzatore non ha particolari doti fisiche, può, lavorando su se stesso, raggiungere dei risultati apprezzabili tali da permettere una carriera di livello?

Sicuramente sì. Meglio avere una buona testa che gambe meravigliose.

Lei ha avuto fra i Suoi allievi due straordinari danzatori, Roberto Bolle e Massimo Murru, come li ricorda ai loro esordi?

Erano molto diversi fra loro, ma li ricordo ambedue con grande affetto e piacere. Erano due persone meravigliose che si sono impegnate al massimo, secondo le loro possibilità e con intelligenza.

L’esperienza in scena quanto aiuta a confrontarsi con se stessi?

Ohi…è un momento molto particolare quello che precede l’andare in scena! Il cuore ti batte e devi respirare profondamente ripassando i passaggi più difficili. Ti sembra di avere dimenticato tutto…poi arriva la tua musica e vai. Improvvisamente, sicura e vogliosa di mostrarti al tuo meglio. Più sei giovane e più devi tenere sotto controllo un sacco di emozioni. Quindi è proprio mettersi alla prova e forgiare il carattere! Ricordo l’emozione della prima volta che ballai al Bolshoi. Credevo di essere paralizzata! Poi il mio pezzo è iniziato e… sono entrata con i grands jetés en avant! Il pubblico applaudì subito e mi spiazzò. Allora mi vedevano, mi aspettavano! Infatti sul cartellone affisso fuori e dentro il teatro vicino al mio nome c’era scritto ITALIA! E il pubblico salutava l’italiana! Mamma mia che emozione! Insomma, l’esperienza in palcoscenico è importantissima anche per insegnare. Si può far capire meglio agli allievi che cosa è la danza e che studiamo per danzare in palcoscenico, che ogni nostro movimento e gesto hanno un senso e devono arrivare al pubblico, non solo per il nostro piacere. Altrimenti, come dico di solito, potremmo ballare nel salotto di casa, senza far provare emozioni a chi ci è venuto a vedere.

Il teatro è un luogo sacro della danza, ma molti giovani talenti attualmente puntano molto alla televisione, crede sia un passaggio generazionale, un cambio di cultura?

Sicuramente sì. Siamo bersagliati da cose effimere, che sembrano facili e divertenti. Ballare, invece, significa studiare con dedizione, fatica e sudore, come un atleta, ma in più il danzatore deve esprimere gioia e una variegata quantità di espressioni con diversi stili, come richiesto dal balletto. Quindi doppiamente difficile. E, in più, generalmente pagati poco e con scarsa visibilità. Non come certi calciatori!

E, a proposito di televisione, Lei ora è nella commissione artistica della trasmissione televisiva Amici di Maria De Filippi, vuole raccontare questa esperienza dal punto di vista di chi ha sempre vissuto in teatro?

Premetto che oggi non è più tempo di avere la puzza sotto il naso e chiudersi nel cosiddetto tempio. Bisogna avvicinarsi al pubblico, altrimenti balleremo tra noi, per noi. La mia partecipazione ad Amici ha, nelle mie intenzioni, lo scopo di far capire meglio al pubblico che cosa è la danza, che cosa vuol dire danzare con qualità. Quest’anno la trasmissione non solo ha diviso il canto dal ballo, ma cerca anche di mostrare giovani danzatori con una certa capacità. Certamente non è facile e c’è molto da fare, ma già il fatto che quanto ho detto sopra sia stato fatto è molto per la danza. Oggi passa tutto per i media. Si parla per mesi di omicidi, ma, con tutto il rispetto, non si parla di Arte. L’uomo senza Arte non è individuo! 

Qual è il messaggio insito nella danza?

Di cultura, di bellezza, di forza, di armonia, di passione e voglia di vivere.

Cosa sente di suggerire a chi si avvicina ora alla danza?

Di essere autocritici, di ascoltare persone veramente competenti e di chiara fama e non crearsi false illusioni. Un conto è amare la danza e voler ballare e altro è averne le capacità. Si può amare la danza essendo pubblico appassionato e affezionato. Quindi, valutate bene se è il caso di continuare, frustrati, a passare da un’audizione all’altra oppure trovare una strada più consona. Per fortuna ci sono molte attività e ognuno di noi è nato per una di esse. Siamo, ognuno di noi, esseri unici e irripetibili!

 Lorena Coppola

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