Movimento Danza è la realtà più importante in Campania e non solo… raccontiamo la storia di come inizia questo progetto?
Movimento Danza inizia oggi il suo 32° anno di attività ininterrotta e nasce da una mia esigenza personale. Tutto ciò che è accaduto dopo ha avuto come innesco questa mia esigenza personale, che era quella molto semplice di una ragazza costretta a girare l’Italia e il mondo per poter danzare, fare lezioni, coreografie, spettacoli e seguire quel modello e quello stile di vita che aveva scelto. Tutta una parte della mia formazione si è svolta fuori dalla mia città e ad un certo punto ho pensato che non fosse giusto che io dovessi spostarmi anche quando semmai non volevo, per fare lezione con un maestro, per poter assistere ad uno spettacolo di un grande coreografo, per vedere una mostra e per qualsiasi cosa che fosse attinente alla danza. Quindi ho pensato di creare Movimento Danza e l’ho visto da subito come quello che è oggi: un centro di stampo internazionale in cui le attività della danza fossero attività di cultura, di arte e di spettacolo e non semplici lezioni di danza; perciò sin dal primo anno di vita ho invitato maestri, coreografi, ho promosso eventi, spettacoli, rassegne. La prima rassegna di danza contemporanea nella nostra regione è stata promossa proprio Movimento Danza, così come il primo stage, le dimostrazioni aperte al pubblico e tanti altri eventi. Un ulteriore motivo di sviluppo è stato poi il mio ruolo di coreografa, poiché avevo bisogno di uno spazio fisico tutto mio per poter seguire la mia compagnia, per dare sfogo alla mia creatività, per svolgere in assoluta libertà le mie prove. Dunque mi sono resa conto subito che l’unico modo per avere uno spazio mio e per la mia compagnia era quello di creare dei corsi, quindi una scuola, che potesse mantenere in vita quello spazio. Quindi anche la scuola è nata da un’esigenza coreografica, poi è diventata una vera e propria missione.
Quali sono state le difficoltà per un progetto così ambizioso in un contesto sociale che ha le sue innegabili chiusure?
Le difficoltà sono state enormi. Infatti, oggi, guardandomi indietro e pensando anche alla giovane età in cui ho iniziato, mi meraviglio della mia assoluta chiarezza di idee e determinazione: avevo questo progetto in mente sin dal primo istante e nessuna difficoltà è riuscita a fermare la mia idea. Di questo naturalmente sono molto contenta, ma le difficoltà sono state tantissime e infatti per lungo tempo Movimento Danza come compagnia ha lavorato pochissimo a Napoli. Ho girato tutto il mondo, sia come compagnia che come insegnante, ma solo negli ultimi 10 anni, dopo aver vinto il Progetto “Cultura 2000” dell’Unione Europea, ci sono stati riconoscimenti anche qui e così ho capito che dovevo condividere maggiormente con la mia città questo patrimonio culturale che Movimento Danza ha accumulato in oltre 30 anni. Questo mi ha messo in contatto diretto con le istituzioni locali, cosa che non avevo mai fatto prima. Movimento Danza è un organismo riconosciuto dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali dal 1987 e, ancor prima, dalla Regione Campania, poi abbiamo avuto il riconoscimento dell’Unione Europea e quello dell’UNESCO nel 2000. Nello stesso anno il Ministero ci ha riconosciuto ente di promozione nazionale. Siamo 7 enti in tutta Italia e noi siamo l’unico in tutto il Mezzogiorno d’Italia e le isole. Il contatto con il Comune, la Provincia, la Regione mi ha fatto capire tantissime cose e mi ha fatto prendere coscienza dei reali problemi che deve affrontare un creativo di qualunque matrice in una città come Napoli e dell’inadeguatezza del sistema attuale con cui vengono proposti i progetti a titolarità pubblica. Ho speso molte ore in riunioni e incontri che però ritengo non abbiano sortito alcun effetto, né abbiano contribuito ad aprire la mente e gli orizzonti della nostra attuale classe politica a nuove possibilità di sviluppo culturale. Una città come Napoli, e una regione come la Campania, dovrebbero vivere della creatività come materia prima, come capacità di risoluzione, di organizzazione, come possibilità di pensare, di ideare, di realizzare. Invece ne siamo incapaci, siamo l’ultima regione d’Italia da questo punto di vista. Poi ci sono anche molti aspetti addirittura didascalici, come la spazzatura. Di fatto ci troviamo in una crisi economica nazionale, se non mondiale; una crisi di valori, di identità, di cultura, di etica e probabilmente quello che ora scoprono gli altri i napoletani già lo sapevano da molto tempo.
Movimento Danza è nato nel 1979. Come è cambiato negli anni?
Io penso di avere una forte capacità rigeneratrice di rilancio, per cui vivo le difficoltà della mia città e del settore cultura e spettacolo in Italia come una possibilità, non come un deterrente, e ciò mi dà una chiave di lettura diversa del termine “difficoltà”, nel senso che per me la difficoltà è una possibilità di creare in maniera diversa, addirittura qualitativamente superiore. Non sento la difficoltà come un ostacolo, bensì come un’opportunità, uno stimolo al rinnovamento. Questo l’ho vissuto in modo molto diretto nella mia attività di coreografa, ad esempio quando eravamo in tournée in paesi che versavano in condizioni precarie – come in Etiopia, Kenya, Libano, con i bombardamenti – e davanti alle difficoltà che incontravo sul posto ho spesso dovuto cambiare le mie coreografie. Col tempo mi sono resa conto che quelle soluzioni sviluppate in un momento di difficoltà e di contingenza erano addirittura creativamente superiori alle precedenti, all’idea originaria; così ho imparato a mettere in pratica questa filosofia anche nella quotidianità, per cui la difficoltà per me non è né un impedimento né una sfida, ma una possibilità per la mia mente e per la mia creatività di sviluppare nuovi metodi, nuovi approcci, nuove possibilità. È sempre gratificante, perché scopro di riuscire a creare traendo ispirazione proprio dalla difficoltà e di trasformare la stessa in beneficio: non so se mi illudo o se è vero! Ma forse, se siamo arrivati a 32 anni di attività, forse è vero…
Tu sei artista creativa a 360 gradi ma nello stesso tempo anche donna manager che gestisce tutta una serie di problematiche pratiche nel senso più stretto del termine, un duplice ruolo…
All’inizio mi occupavo poco degli aspetti pratici, davo più spazio solo alla mia creatività come coreografa, anche per i progetti luci e costumi e per tutto ciò che riguarda l’insegnamento, che per me è vitale. Poi ho voluto mettermi in discussione proprio in occasione del bando dell’Unione Europea e ho avuto ragione perché l’ho vinto. Inaspettatamente, perché all’inizio non riuscivo neanche a comprendere bene il formulario, mentre poi sono stata coordinatrice e direttrice artistica del progetto con partner di altissimo livello, come il Tanztheater di Pina Bausch, il Laban Centre for Contemporary Dance di Londra, Victor Ullate. Questo progetto è durato un anno e mezzo e mi ha fatto riconsiderare il ruolo di project manager, anche perché era bello pensare, ideare e creare in quest’altra forma. Da allora ho iniziato a sviluppare tutta una serie di attività progettuali per fondazioni, per enti pubblici e privati, e questo si è andato man mano ad affiancare alle altre mie attività artistiche, tanto che oggi sento questo ruolo creativo quanto quello di coreografa. Stare in una sala prove con dei danzatori e poi andare in scena rappresenta per me il culmine e il sublime, ma devo dire che l’aspetto manageriale, il ruolo di imprenditrice culturale, resta comunque un’avventura stimolante, avvincente, che ha soprattutto un fine sociale: quello di riuscire a sviluppare circoli virtuosi all’interno della realtà in cui si vive. Io sento molto la funzione dell’artista all’interno del tessuto sociale.
Fin dove può arrivare la danza?
Dal punto di vista sociale, la danza potrebbe essere una chiave diversa per risolvere problemi di vecchia data. Il problema non è dove possa arrivare la danza, ma dove vuole arrivare la politica.
La danza – come l’arte, la cultura, lo spettacolo – non può arrivare dove la politica non vuole farla arrivare e quindi siamo relegati in una dimensione chiusa. Per uscirne sono sicuramente meritori tutti i progetti in cui il sociale, l’integrazione, la questione di genere sono affrontati in una chiave culturale, artistica e di spettacolo dal vivo, ma rimangono caselle di un puzzle che non si comporrà mai, perché manca la cornice di riferimento di una programmazione di politica culturale e sociale all’interno della quale quei tasselli vengano poi inseriti e interfacciati tra di loro. Finché ciò non accadrà, l’operato dei colleghi e tutto quello che Movimento Danza fa per questa città e per questa regione non costruiranno questo quadro e resteranno sempre pezzi distaccati e scollegati.
In ambito nazionale invece l’attività propulsiva di Movimento Danza trova dei riscontri diversi?
Paradossalmente, l’attività nazionale ed internazionale è più facile. Ad esempio per me è molto più facile avere una correlazione con istituzioni di altre città o di altri paesi che non con le istituzioni della mia città. E questo è un paradosso tipico di questa regione e in parte anche italiano: i centri di eccellenza sono sconosciuti e vengono visti come elementi al di fuori del sistema, quanto più sei “bravo”, tanto più non esisti nella tua città! Questa è una realtà che mi sono sempre trovata a dover affrontare. Anche come coreografa, io nella mia città non esisto, mentre invece esisto in Italia ed esisto all’estero e, come insegnante, a Napoli io esisto molto meno che non in un’altra città italiana o d’Europa. È inquietante pensare che centri di eccellenza o personalità eccellenti, e non parlo solo di me ma in generale, siano sconosciuti nella città che li ha “prodotti”, però purtroppo è un dato di fatto.
Esiste allora una strada per infrangere questo trend?
Come ho già detto, io ci ho già provato, con esperienze, riunioni, incontri, col coordinamento dello spettacolo. Continuo a fare tutto il possibile e con molto piacere, ma poi accade che la determinazione di molti soggetti pubblici e privati viene a cadere, perché qualcuno comincia a pensare al proprio tornaconto e quindi le cose non vanno più avanti, anche perché credo che ormai ci sia un’incredulità ed uno scetticismo di fondo, che a mio avviso è già una cifra culturale nostra. Noi partenopei siamo stati dominati in tutti i sensi e dunque solo l’ironia e la nostra capacità di distacco psicologico potevano salvarci. Quando questo aspetto della napoletanità prende il sopravvento rispetto a quello del coinvolgimento, della condivisione e della creatività, le cose non funzionano più. Solo attraverso il distacco mentale dai problemi di questa realtà territoriale riusciamo a sopravvivere in questo contesto; diversamente non potremmo fare altro che andare via tutti. Questa è dunque una fase anche storica che stiamo vivendo, come città e come nazione. Se vedo la spazzatura che arriva al secondo piano del mio palazzo, non posso più affacciarmi al balcone, quindi non c’è più la mia città, c’è solo la mia casa, dove entro e mi chiudo a chiave. Dunque, finisce che mi blindo all’interno della mia casa e della mia struttura di lavoro e tutto quello che è fuori non è che lo respingo, ma metto una distanza, e questa è una cosa che tutti i napoletani sono costretti a fare ogni giorno.
Cos’è la danza contemporanea per Gabriella Stazio?
Potremmo affrontare questa domanda sotto vari aspetti, tecnici e stilistici, ma profondamente per me la danza contemporanea è stato il modo attraverso il quale io ho compreso me stessa e in cui sono entrata in contatto con la parte più profonda di me, questo dal punto di vista personale. E poi sicuramente la contemporaneità, e dunque la danza contemporanea, è un modello artistico e culturale che vuol dire capacità di ascolto, percezione, contaminazione, scambio, contatto, ricerca, mantenimento di standard elevati, però purtroppo in alcuni casi diventa un cliché, quindi perde la sua potenza “rivoluzionaria” o contestualizzante. La contemporaneità riesce a tenere gli artisti a contatto col proprio contesto di riferimento se vi si è dentro, però può diventare anche uno stereotipo. Per me la danza contemporanea è un modo di pensare e di vivere.
Non credi che oggi vi sia un po’ la tendenza a includere nel termine “danza contemporanea” tutta una serie di cose a cui si cerca a tutti i costi di dare una definizione e che spesso però sono molto lontane anche da quello che è il suo percorso storico?
Il problema di fondo a mio avviso è che bisogna distinguere la danza contemporanea dalla contemporaneità. La danza contemporanea oggi è già storia. Trent’anni fa, quando ho iniziato, non lo era, era contemporaneità. In quanto storia, noi studiamo la danza contemporanea: se ne studiano le tecniche, gli stili, le coreografie, le differenze; è già codificata nel suo essere danza contemporanea. Poi esiste la contemporaneità. Il punto è che abbiamo questa esigenza di “catalogazione”, quest’ansia di etichettare, da questo nasce il problema, perché è impossibile catalogare qualcosa che è in continuo divenire. La contemporaneità noi la stiamo tuttora scrivendo, vivendo, plasmando giorno per giorno, per questo non può essere codificata. Spesso ci si chiede perché si definisca come danza contemporanea anche ciò che può non esserlo, ma io credo che oggi non possiamo sapere se lo è o meno e se non lo sarà. Dovremmo semplicemente attendere che si concluda in qualche modo un altro ciclo creativo e poi chiederci cosa significhino tutte queste contaminazioni. A me personalmente interessa conoscere tutti questi processi, mi interessa capirli, ma non mi interessa dare loro necessariamente una definizione. Possiamo catalogare solo ciò che ha terminato un ciclo vitale, diciamo la danza contemporanea fino agli anni ‘70-‘80, ma non il periodo successivo perchè è tuttora in divenire, ancora in modellamento.
Nel tuo lavoro di coreografa e di artista, che ruolo ha la sperimentazione?
Sperimentazione è un termine ormai assolutamente abusato, che risulta anche un po’ vuoto. Oggi tutti sperimentano e tutti ricercano, anche quando non è necessario. Sperimentare vuol dire ricercare cose nuove, peculiarità che nessuno ha mai provato finora; un artista può tentare un approccio nuovo, dei metodi nuovi, nuove strutture coreografiche che per lui sono nuove, ma ciò non vuol dire che sia davvero innovativo e che nel mondo non sia stato già sperimentato da qualcun altro, magari molti anni prima. Dunque non è che detto che la sperimentazione sia necessariamente sinonimo di innovazione, forse è la ricerca che si rinnova sempre. Oggi spesso ci troviamo di fronte a pretese di sperimentazione già viste in altri contesti, perché magari in Italia risultano nuove, ma in altre culture si facevano già 30-40 anni fa e oggi sono considerate addirittura obsolete. Piuttosto, ciò che deve essere realmente originale è la ricerca: innanzitutto della consapevolezza del proprio stile, delle proprie capacità, del proprio movimento, del proprio linguaggio espressivo. Si può cominciare poi a sperimentare partendo da queste basi; quindi la ricerca è propedeutica alla sperimentazione, senza di essa è impossibile sperimentare.
Il tuo messaggio artistico: quando crei, cosa vuoi trasmettere?
Un’immagine, una sensazione. La danza difficilmente può tradursi in parole, né le parole si possono tradurre in danza. Non possiamo tradurre concetti in danza, ma solo percezioni, perché è un’arte del corpo, quindi può solo trasmettere emozioni, visioni, ma non concetti, non è matematica, non è filosofia e questa è la sua grande potenza. Quindi ogni spettatore, ogni danzatore, ogni coreografo può percepire le sensazioni che la danza trasmette in base al suo essere se stesso.
Pensi di aver tralasciato qualcosa dopo tanti anni? Ti è mancato qualcosa?
Guardandoti indietro, non devi mai pentirti di cose che non hai fatto. Ogni tanto, quando sono arrabbiata, rimpiango di non essere andata via da Napoli, con tutte le occasioni avute di trasferirmi in città europee ed oltre dove sono stata accolta in maniera eccezionale e dove avrei potuto lavorare, avere sedi, dirigere compagnie e scuole. Poi, razionalizzando, mi rendo conto che non potevo fare una scelta diversa: magari se mi fossi trasferita me ne sarei pentita poi tutti i giorni, anziché soltanto nei momenti di rabbia! E poi, se penso ai tanti insegnanti, ballerini e coreografi emersi grazie a Movimento Danza, mi rendo conto di aver fatto la scelta giusta.
Magari è un po’ folle come domanda, ma prova a descrivere il tuo percorso interiore in un’unica parola…
È sicuramente un percorso di crescita…
Progetti futuri?
Tantissimi, anzi troppi! A breve ci sarà la Giornata Mondiale della Danza, poi l’appuntamento con “Di Seconda Mano”, una collaborazione con l’Accademia delle Belle Arti di Napoli, molti corsi di formazione lavoro, perché credo sia fondamentale offrire ai giovani l’opportunità non solo di formarsi, ma anche di lavorare. Poi sto lavorando a varie coreografie sia per la compagnia “storica” che per la compagnia formata dai più giovani. Sto inoltre curando progetti più ampi di integrazione tra la danza ed altre forme d’arte (poesia, pittura, disegno, musica), come la citata rassegna “Di Seconda Mano”. Il fine è vedere questo spazio come un laboratorio creativo oltre la danza.
Dunque il tuo sguardo al futuro è positivo?
Assolutamente sì! Non penso che crogiolarsi nelle crisi e nei problemi possa essere risolutivo, come non penso che il singolo possa risolvere tali problemi. Mi rendo conto che questo è un momento in cui bisognerebbe lavorare attraverso sinergie importanti, sia locali che nazionali e internazionali, dovrebbe finalmente concretizzarsi il concetto di “reti immateriali” da sempre evocato ma mai attuato sinora.
Lorena Coppola