Coreografa, artista e ricercatrice, Margherita Landi è una delle voci più originali della scena performativa contemporanea. Il suo lavoro attraversa confini disciplinari, intrecciando danza, tecnologie immersive, pratiche partecipative e riflessioni politiche sul corpo. Nei suoi progetti, spesso site-specific o sviluppati in contesti non convenzionali, il corpo non è mai un’entità isolata: è un archivio vivente, una soglia tra percezione e memoria, uno strumento di relazione con lo spazio e con gli altri. Attraverso un uso critico della tecnologia, che non spettacolarizza ma dilata la soglia percettiva, Landi esplora come i corpi si situano, si trasformano, si relazionano al contesto e agli altri. La sua danza non è tanto da vedere, quanto da attraversare. È una danza che ascolta, che apre, che cura, che disarma. In questa intervista, Margherita Landi ci accompagna nel suo universo artistico. Il Suo ultimo lavoro, Corpi Situati, con la partecipazione di Agnese Lanza, è stato presentato, in anteprima, il 25 giugno 2024, all’interno di “Site Dance”, rassegna di danza contemporanea organizzata dalla Compagnia degli Istanti/Compagnia Simona Bucci, codiretta da Simona Bucci e Marika Errigo. Lo spettacolo replicherà il 14 settembre 2025, al Parco di Villa Fabbricotti, a Firenze, sempre nell’ambito di “Site Dance”.
Partiamo dal concetto di “corpi situati”: cosa significa per Lei e come si traduce nella tua pratica coreografica?
Il concetto di “corpi situati” è un omaggio al Manifesto Cyborg di Donna Haraway. La mia pratica è sempre stata femminista nel suo posizionamento e nelle sue scelte, ma solo di recente ho iniziato a metterla in dialogo esplicito con il pensiero femminista, ritrovando nelle parole di autrici come Haraway e Barad risonanze profonde con ciò che già vivevo nel corpo e nella pratica. Il modo in cui utilizzo la tecnologia è infatti profondamente divergente rispetto all’uso previsto dal mercato. I visori di realtà virtuale, ad esempio, sono progettati per un’esperienza individuale, indoor, orientata al controllo dell’ambiente digitale. Io li porto all’aperto, in spazi pubblici o naturali. Li uso in contesti collettivi, per generare relazioni umane, discorsive, per dare vita a intra-azioni più che a inter-azioni. È un gesto artistico, ma anche politico. In questo senso, trovo molti punti di contatto tra la mia ricerca coreografica e l’idea di sapere situato: ogni corpo conosce e si muove a partire da una prospettiva parziale, soggettiva, relazionale. Allo stesso modo, anche la tecnologia non è neutra, e il modo in cui la integriamo nei processi performativi o quotidiani è sempre carico di significato. In Corpi Situati, questa riflessione prende forma concreta attraverso il Landi’s Cube, un sistema di notazione del movimento in XR che sto sviluppando dal 2022. Mi consente di interagire in tempo reale con chi indossa il visore, inviando indicazioni di movimento all’interno di uno spazio tridimensionale. Ogni partecipante vede il proprio “cubo”: una griglia di riferimenti spaziali che orienta, ma non vincola, e agisce a partire da quello spazio percettivo unico. La performance è una pratica partecipativa: sei persone, ognuna immersa nel proprio cubo – a momenti diverso, a momenti identico a quello degli altri per forma e dimensione – ricevono istruzioni che attivano uno stato di attenzione giocosa. Le indicazioni sono precise, ma lasciano spazio all’interpretazione. C’è chi tocca il pavimento con il ginocchio, chi inserisce una spirale prima di eseguire il gesto. Ogni movimento racconta qualcosa, anche se non esplicitamente. Sono corpi situati perché radicati in relazioni: con lo spazio fisico, con quello virtuale, con gli altri, con la propria memoria, con me, con il visore. Ciascuno vive un’esperienza singolare, ma tutti danzano insieme, in una sorta di intimità collettiva mediata dalla tecnologia. È una forma di scrittura del corpo che nasce dall’ascolto, non dalla rappresentazione.
Nel Suo lavoro si percepisce una forte attenzione al rapporto tra corpo e spazio. Come sceglie gli ambienti in cui lavorare e che ruolo gioca il contesto nella costruzione del movimento?
È venuto molto naturale pensare a fruizioni collettive e partecipative, perché questo è il desiderio profondo che nutro per il futuro della tecnologia: che possa tornare a essere un’estensione sensibile del corpo, non uno strumento di isolamento. Durante i miei studi in Antropologia Culturale mi ha sempre colpito la capacità unica dell’essere umano di produrre artefatti e poi concepirli come parte di sé, come protesi del proprio corpo. È anche grazie a questa facoltà che, pur senza artigli, corazze o ali, abbiamo potuto abitare ambienti ostili, costruire strumenti, espanderci oltre i limiti biologici. Se questa è stata una tappa fondamentale della nostra evoluzione, credo che la tecnologia vada celebrata e riportata a quello scopo originario: non per sostituire il corpo, ma per accompagnarlo, per estenderne la sensibilità e la possibilità di relazione. Per questo motivo, mi è venuto spontaneo lavorare in contesti pubblici, naturali, in luoghi di passaggio: spazi vivi, aperti, permeabili all’imprevisto. Luoghi dove il rituale performativo può diventare accessibile, anche a chi ci inciampa per caso. Credo che l’esperienza partecipativa abbia più senso se non si chiude in una bolla protetta, ma si apre al fuori programma, all’incontro inaspettato, all’altro che arriva. Il contesto, per me, non è mai uno sfondo. È un interlocutore. Influenza i gesti, le relazioni, le possibilità percettive. Il movimento nasce sempre da una relazione – con lo spazio, con l’altro, con ciò che non si controlla. In questo senso, ogni ambiente è già una coreografia potenziale.
Spesso, nei Suoi progetti, integra tecnologia, realtà aumentata e interattività. In che modo questi strumenti influenzano l’idea di corpo e presenza?
C’è spesso un po’ di fraintendimento tra realtà virtuale (VR) e realtà aumentata (AR), che in realtà si trovano su un continuum. La VR è il massimo dell’immersività: implica un visore sugli occhi e il contenuto avvolge a 360 gradi lo spettatore. L’AR, invece, non è immersiva, sovrappone elementi digitali alla realtà visibile anche attraverso uno schermo ‒ come i filtri di Instagram ‒ e non richiede necessariamente un visore. Negli ultimi 5 anni mi muovo soprattutto tra VR e MR (Mixed Reality), ovvero realtà mista: si fruisce con un visore, ma si continua a vedere il mondo reale, arricchito da elementi digitali, un punto intermedio tra VR e AR. Questa tecnologia (VR e MR) mi ha colpito fin dall’inizio proprio per la sua capacità di generare embodiment: come camminare su due zampe ha liberato le mani, anche il visore ci lascia liberi di usare il corpo, anzi lo avvolge, lo include e lo stimola. Uso questi strumenti non per aumentare l’illusione, ma per aumentare la presenza. Paradossalmente, lo faccio stimolando l’assenza. La mia intenzione è utilizzare l’XR per evocare, più che mostrare. Il mondo della VR dà molta importanza a ciò che accade dentro il visore. Io, invece, sono interessata a ciò che accade fuori: come il contenuto attiva il corpo e come, di conseguenza, chi guarda dall’esterno, senza vedere, possa immaginare, dedurre, interpretare. Mi interessa che chi osserva un performer con il visore debba leggere i suoi gesti, intuire cosa sta vivendo. Riempire quel vuoto con le proprie esperienze, con la propria memoria corporea. È un processo empatico, interpretativo, quasi rituale, sicuramente arcaico e naturale. In un mondo tecnologico ossessionato dal “portare il corpo nel virtuale”, io mi chiedo: cosa può portare il virtuale al corpo? Spesso mi è stato chiesto da operatori culturali di proiettare su uno schermo ciò che si vede nel visore. Mi sono sempre rifiutata. Perché una proiezione bidimensionale non restituirà mai la stessa qualità esperienziale che si ha quando il contenuto è letteralmente intorno al corpo. Un video in 360° ti costringe a guardarti intorno, a scegliere cosa guardare, a essere attivo nella visione. È il contrario della visione passiva a cui siamo abituati (TV, tablet, o smartphone) che spesso anestetizza la percezione e disattiva il corpo. Io credo, invece, che il vero potenziale della VR sia proprio questo: riattivare il corpo attraverso la visione. E se non si può essere dentro al visore, allora il modo più interessante di fruire la performance è guardare i corpi di chi lo sta indossando. Osservare come si muovono, cosa fanno le loro mani, che relazione hanno con lo spazio e con gli altri. Anche così si entra in relazione, anche così si partecipa. In questo senso, non mostrare ciò che si vede nel visore è una scelta precisa. Per me è un atto politico: significa resistere a quella che Byung-Chul Han definisce la pornografia della trasparenza, ovvero la tendenza a rendere tutto visibile, chiaro, consumabile. Significa lasciare uno spazio vuoto, un’interruzione, uno scarto ‒ che chi guarda deve colmare con la propria empatia, con la propria memoria, con il proprio corpo. Deve letteralmente mettersi nei panni di chi fruisce e immaginare cosa stia guardando. È un invito a tornare all’empatia, all’ascolto, al desiderio. A leggere il corpo. E a capire che quello che ci muove non è mai solo visibile, ma si intuisce nei dettagli, nelle posture, nelle traiettorie. È come guardare qualcuno sognare: non sappiamo cosa vede, ma lo vediamo accadere nel corpo. E questo, per me, è potentissimo. Viviamo in una cultura che ci ha abituati a vedere tutto, a ottenere tutto tramite immagini. Una sorta di pornografia dello sguardo. Io credo invece che non vedere possa costringerci a fare un passo in più ‒ personale, interiore, a volte spirituale. La VR ci mette di fronte a questo paradosso: siamo dentro un dispositivo che lavora con la visione, ma possiamo usarlo per ritrovare il tatto, l’ascolto, l’interiorità. Il visore è come una maschera in scena: non mostra, ma rivela. È una superficie su cui il pubblico può proiettare significati, paure, desideri. C’è chi lo trova inquietante, chi poetico. Ma sempre ci costringe a una riflessione, a colmare un vuoto, e a farlo con quello che siamo. Mi immagino un futuro ‒ nemmeno troppo lontano ‒ in cui i visori diventeranno occhiali, o lenti a contatto, e smetteranno di sembrare dispositivi ingombranti. Forse allora si smetterà anche di chiedermi di mostrare cosa c’è dentro. Per me, il contenuto del visore è una partitura coreografica: a nessun coreografo è mai stato chiesto di proiettare in scena le istruzioni date ai danzatori. Credo debba valere lo stesso per me. Quello che conta non è cosa il performer vede, ma cosa accade nel suo corpo a partire da ciò che vede.
La Sua ricerca coreografica sembra indagare il confine tra l’individuale e il collettivo. Come si costruisce un “corpo collettivo” nel Suo lavoro?
Per me il corpo collettivo si costruisce a partire da una riflessione su isolamento e connessione, presenza e assenza. Penso che queste dicotomie vadano ripensate, ricollocate, forse anche superate. Viviamo in un tempo in cui siamo sempre più isolati, ma al tempo stesso sempre più connessi. Questo ci rende davvero una comunità? E che tipo di corpo collettivo si genera in uno spazio reale, rispetto a uno virtuale? Credo che il passaggio antropologico attuato dal digitale sia enorme. Stiamo trasformando i nostri rituali più antichi, stiamo ripensando i luoghi e le modalità dell’aggregazione. In un progetto di qualche anno fa riflettevo, ad esempio, sullo spostamento del rituale del lutto dai cimiteri al digitale: oggi cerchiamo la presenza dei nostri cari più sui social che sulle tombe, elaboriamo il dolore attraverso la condivisione collettiva di post, piuttosto che nel silenzio individuale. Quindi per me è il rituale a generare il corpo collettivo. Non riesco a immaginare un rituale che non implichi una dimensione condivisa, una forma di partecipazione sociale ‒ che sia dal vivo o mediata dalla tecnologia. Il corpo collettivo, nel mio lavoro, nasce così: come uno spazio di risonanza, in cui l’esperienza individuale si intreccia con quella degli altri, e da cui può emergere una memoria comune, una percezione condivisa.
Che forma assume la soggettività all’interno dei Suoi processi creativi? Il corpo è ancora un luogo stabile di identità o si dissolve nella relazione con l’altro, lo spazio e la tecnologia?
Credo che l’identità esista solo nella relazione. È nel confronto con l’altro, con lo spazio, con il contesto, che qualcosa si definisce. Più mi espongo all’alterità, alla diversità, alla variazione, più riesco a comprendere ciò che mi riguarda. La relazione non confonde la soggettività — la chiarisce, la affina. Non penso che l’identità sia stabile, né che debba esserlo. Non lo è mai stata. Si trasforma generazione dopo generazione, anno dopo anno, anche nella rilettura delle tradizioni: decidiamo di volta in volta cosa tenere e cosa lasciare andare. È un movimento continuo, che per me ha molto a che fare con la danza. In questo senso, la soggettività è l’unica vera condizione di riferimento: è il punto di partenza per abitare il mondo. Esporsi a esperienze relazionali ‒con la tecnologia, con altri corpi, con gli spazi ‒ è un’occasione per esplorare sé stessi da nuove angolature. Ed è proprio attraverso questa apertura soggettiva che possiamo intravedere anche qualcosa di universale: dell’essere umano, della natura, dell’altro. Il corpo, allora, non è un contenitore fisso di identità, ma una soglia sensibile, un territorio in divenire, che si disegna e si riscrive costantemente nella relazione con ciò che lo attraversa.
Lei lavora spesso con tecnologie immersive o interattive, ma sembrerebbe che l’uso che ne fa non sia mai spettacolare: è quasi sempre sottrattivo, percettivo, intimo. Cosa cerca in questa tensione tra presenza e dislocazione, tra carne e codice?
Trovo che l’effetto spettacolare invecchi molto rapidamente ‒ un po’ come certi effetti speciali nel cinema, che colpiscono al momento ma poi diventano datati. Nel mio lavoro non cerco mai l’effetto, ma l’esperienza. Come dicevo prima più che la tecnologia in sé mi interessa cosa essa può offrire al corpo. In questo momento sento con forza che la tecnologia può anche essere usata contro la sua stessa natura, e in questo senso mi interessa la dislocazione, la decontestualizzazione dello strumento. Trovo potente lavorare con un dispositivo come la VR ‒ pensato per l’isolamento visivo e l’esperienza individuale ‒ e usarlo invece per connettere corpi, generare movimento, creare ascolto. Per questo i miei dispositivi performativi non puntano sull’effetto visivo estetico o esterno al corpo, ma un effetto interno, su un’intimità percettiva. Lavoro con l’assenza, con l’immaginazione, con il desiderio di attraversare il corpo attraverso ciò che manca, che sfugge, che vibra. È lì che si apre, per me, lo spazio della danza.
Nel Suo approccio si percepisce anche una tensione politica, una volontà di ripensare il corpo come atto di resistenza. È una scelta consapevole?
Assolutamente sì, è una scelta consapevole ‒ e profondamente politica. Come dicevo prima, usare la tecnologia contro ciò per cui è stata originariamente progettata è per me un modo di metterne in discussione l’uso dominante, di denunciarne le derive, di aprire altre possibilità. Credo che ogni tecnologia vada considerata innanzitutto come strumento, e solo dopo come eventuale mercato. Purtroppo, questo passaggio oggi viene spesso saltato, e questo impedisce un uso critico, consapevole, etico. Prendiamo i social network: sono progettati secondo logiche di profitto, per creare dipendenza e generare guadagno. Ma se fossero pensati fuori da queste dinamiche, sarebbero davvero così dannosi? O potrebbero, forse, diventare luoghi di scambio, di cura, di comunità? Spesso tendiamo a guardare lo strumento senza interrogarci sul contesto culturale, economico e politico in cui è stato concepito. Mi interessa moltissimo, quindi, offrire con il mio lavoro una doppia lettura: da una parte, quale visione del corpo implicano queste tecnologie; dall’altra, quali usi collaterali possiamo inventare, quali significati emergono quando deviamo dal loro impiego originario. Mi piace moltissimo quando, dopo una mia performance, le persone sentono il bisogno di confrontare ciò che hanno provato dentro il visore con quello che hanno visto da fuori, da spettatori, senza conoscere il contenuto. In quel dialogo tra interno ed esterno nascono domande, riflessioni, osservazioni preziose: sulle aspettative verso certe tecnologie, sulla sorpresa generata da un uso alternativo, quasi in controtendenza. È lì che si apre lo spazio critico. È lì che il corpo, anche se indossa un visore, può tornare a essere un atto di resistenza.
Che ruolo gioca l’improvvisazione? Quanto spazio lascia al caso o all’imprevisto durante una performance?
Tutto. L’improvvisazione è la pratica che mi ha liberata dalla gabbia della mia formazione classica ‒ una disciplina severa, unidirezionale, assoluta, e assolutamente inarrivabile. Nel classico si ambisce costantemente a qualcosa che non si raggiunge mai: se riesci a fare due pirouettes, devi provarne tre; se la gamba arriva a una certa altezza, devi mirare più in alto; e se sei magra, purtroppo puoi sempre essere più magra. In vent’anni di classico, ho visto troppi corpi distrutti da questa logica. Poi, intorno ai 25 anni, ho incontrato l’improvvisazione. E si è aperto un mondo. Il mondo del non controllo, della scelta in tempo reale, dell’ascolto, dell’intuizione e dell’accettazione dell’altro. Ho iniziato ad accettarmi per quella che ero, ho smesso di rincorrere un ideale di movimento o di corpo. Ho iniziato a capire come funzionava il mio corpo, e come si collocava dentro un gruppo, una relazione, una comunità. Nel 2012 ho scritto la mia tesi di laurea in Antropologia Cognitiva proprio su questo: sull’improvvisazione come arte di scegliere intuitivamente in una società che premia solo scelte logico-economiche, prevedibili, misurabili. Ancora oggi, quel tema è al centro del mio lavoro: creare contesti sicuri in cui potersi allenare a scegliere in modo intuitivo, immediato, senza giudizio. In tutti i miei progetti lascio delle tracce coreografiche, ma sono sempre aperture: appigli da cui partire per improvvisazioni autentiche. Lascio spazio all’imprevisto, al fuori controllo. Perché credo che siamo una società che controlla troppo. E io voglio, con il mio lavoro, creare uno spazio in cui si possa disarmare il controllo e fidarsi del momento, del corpo, dell’altro.
Come immagina l’evoluzione della coreografia in rapporto ai corpi, agli spazi e alle tecnologie del futuro?
Onestamente, non lo so. E non voglio forzare una previsione, anche perché la creatività umana non è mai lineare. Posso però fare un’ipotesi legata al mio ambito di ricerca: credo che i visori diventeranno sempre più invisibili, probabilmente in forma di occhiali prima, poi di lenti a contatto. Molti mi chiedono perché nei miei lavori si vedano sempre performer con il visore in testa. Se da un lato amo questa immagine, perché la considero una maschera scenica potentissima ‒ simbolo delle nostre contraddizioni tra connessione e solitudine, tra presenza digitale e assenza reale ‒ dall’altro penso che presto potrò realizzare le stesse ricerche senza che i performer indossino nulla. Questo vale anche per molte altre tecnologie: si stanno rimpicciolendo, avvicinando sempre di più al corpo, fino a diventarne parte. Per questo credo che sia fondamentale che il mondo della danza smetta di temerle. La diffidenza è comprensibile — spesso si teme che il corpo venga messo in secondo piano, sostituito o ibridato — ma proprio per questo è urgente sperimentare. Se non lo facciamo noi, rischiamo di lasciare campo libero a usi superficiali, profit-oriented e persino dannosi. D’altra parte, credo che alcune tecnologie siano ormai imprescindibili. Così come l’illuminotecnica ha cambiato per sempre la percezione dello spettacolo senza togliere nulla al corpo, mi auguro che alcune ricerche, se condotte con cura e senso critico, possano portare nuovi strumenti e possibilità nei processi produttivi, distributivi e performativi. Non credo in una contrapposizione tra corpo e tecnologia. Come sostiene Karen Barad, è una relazione discorsiva: un dialogo, una co-costruzione di senso. Ringrazio quindi realtà come Site-Dance della Compagnia degli Istanti o Bolzano Danza, che permettono di mostrare e valorizzare anche questa tipologia di ricerca, così necessaria nel panorama artistico contemporaneo.
Pensa che la coreografia possa essere uno strumento di ricerca sul mondo?
Non solo lo penso, lo vivo. Come d’altronde che tutte la arti abbiano questo pregio. Per me la coreografia è un modo di interrogare il mondo, di attraversarlo con il corpo, di restituirne una visione non concettuale ma esperienziale. Credo che la danza sia, tra tutte le arti, quella che più dialoga con la nostra natura atavica e istintiva. Produrre significati attraverso il movimento, narrare con il corpo, è uno dei modi più diretti e naturali di comunicare. Nel linguaggio non verbale è custodita tutta la storia dell’umanità precedente alla parola, ma anche a ogni forma di rappresentazione concettuale ‒ prima della scrittura, della pittura, della scultura ‒ è lì che si sedimentano gesti arcaici, emozioni profonde, saperi incarnati. La coreografia, allora, non è solo un linguaggio: è una forma di ricerca, un atto percettivo e politico, una pratica che ci permette di esplorare la realtà con il corpo come strumento di pensiero.
Progetti futuri?
In questo momento sto lavorando per affinare Landi’s Cube, il sistema di notazione e interazione coreografica che ho sviluppato a partire dal 2022. Grazie alla collaborazione con Bolzano Danza e NOI Techpark, ho la possibilità di portare avanti una ricerca triennale su questo strumento, che oggi è diventato il mio principale dispositivo di produzione artistica. Il Landi’s Cube è nato come sistema di notazione del movimento in 3D, e sta dimostrando un potenziale di sviluppo molto ampio. Mi ha sempre affascinato l’idea della notazione del movimento: trovo che la Laban Notation fosse geniale come intento, ma troppo complicata e disincarnata. Interpretare un foglio per poi danzare non ha la stessa immediatezza e praticità di uno spartito musicale. Landi’s Cube prende ispirazione dal Cubo di Laban, dal Cubo di Rubik e dal gioco del Twister. Grazie alla tecnologia immersiva, oggi possiamo creare una notazione spazializzata e incorporata: un vero e proprio spartito tridimensionale, che permette di apprendere direttamente sul corpo, in tempo reale. Utilizzando una semplice tastiera da computer, posso “suonare” i danzatori durante la performance, creando una partitura viva, istantanea, dialogica. Sogno che un giorno il Landi’s Cube possa diventare anche uno strumento d’archivio: immagino di poter codificare coreografie storiche e trasmetterle attraverso il codice, rendendole accessibili in modo dinamico. Immagino anche sistemi per la tutela del diritto d’autore delle coreografie, finalmente osservabili e quantificabili, come accade nella musica o nel cinema. Un altro aspetto che mi interessa è scardinare la nozione tradizionale di “compagnia”. Nei miei progetti, i danzatori non sono tenuti a memorizzare una coreografia: la apprendono direttamente durante la performance, tramite il Cube. Questo mi permette di lavorare ogni volta con danzatori locali, riducendo viaggi e costi, ma soprattutto creando una comunità di performer dislocati nel mondo, invece di una struttura fissa che mi segue. È un modo diverso di intendere la trasmissione, la produzione e la condivisione della danza. Ed è anche, per me, una nuova forma di relazione: più flessibile, più sostenibile, più aperta. Vi aspetto quindi il 23 luglio 2025 a Bolzano Danza presso NOI Tech alle 18, per chi volesse sapere di più del Landi’s Cube ci sarà una breve dimostrazione, talk e la possibilità di provarlo in prima persona. Il 14 settembre 2025, alle ore 17:00 a Villa Fabbricotti nella Rassegna di Site-Dance invece per Corpi Situati è il primo studio della nuova produzione a cui sto lavorando adottando questo sistema.
Lorena Coppola
Photo Credits: Carolina Farina – Nuri Rashid
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