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Gentian Doda: “Sei solo, ma non puoi ignorare ciò che ti circonda” [ESCLUSIVA]

Gentian Doda inizia la carriera di ballerino presso il Teatro Nazionale dell’Opera e del Balletto di Tirana, sua città natale. Tra le collaborazioni ricordiamo quella con Maurice Béjart, sotto il cui invito interpreta nel 2002 il ruolo principale de L’uccello di fuoco, quelle con Ohad Naharin, William Forsythe, Jiří Kylián, Orjan Anderson, Mats Ek e Wim Vandekeybus. Nell’ambito della carriera di ballerino lavora presso il Teatro Statale di Opera e Balletto dell’Azerbaigian, il Teatro Arena di Verona, il Balletto di Parma, la compagnia di Victor Ullate, la Compañía Nacional de Danza e lo Staatsballet Berlin.  I primi lavori da coreografo risalgono al 2005. Dal 2005 al 2010 è coreografo della Compañía Nacional de Danza di Madrid sotto la direzione di Nacho Duato e realizza più di sei lavori. Nel 2011 vince il primo premio dei concorsi di coreografia di Copenhagen e Hannover e il premio Scapino per la produzione. Da quel momento realizza opere per il New York Choreographic Institute, lo Scapino Ballet, la Compañía Nacional de Danza di Santo Domingo, lo Staatsballet Nürnberg, il Gärtnerplatztheater e il Teatro Massimo di Palermo. Si è anche dedicato a progetti indipendenti che ha portato in scena sui palchi di tutto il mondo. La scorsa stagione ha creato il pezzo This silence per la Juilliard School di New York e Was bleibt, andato in scena in maggio sul palco della Komische Oper di Berlino nell’ambito di uno spettacolo tripartito con anche opere di Marco Goecke e Nacho Duato. In questa intervista  si racconta in esclusiva al Giornale della Danza.

Come è nato l’interesse per la danza?

È stato tutto molto spontaneo. In Albania il folklore è ricco e la danza è molto radicata e fa parte della quotidianità, tutti sanno ballare. Ballavo fin da piccolo, a matrimoni ed altre occasioni sociali. Il movimento, la danza, sono qualcosa di spontaneo nella nostra cultura: un bambino prima di imparare a camminare impara a ballare. È l’espressione di una necessità, qualcosa di naturale.

Anche diventare un ballerino è stato per me qualcosa di molto naturale, non lo ho cercato ed è successo un po’ per volta.

La coreografia è stata uno sviluppo naturale dell’essere ballerino?

La coreografia si è sviluppata per poter esprimere quello che non potevo esprimere danzando. Neanche la coreografia è stata qualcosa di pianificato. Quando ero nella CND (Compañía Nacional de Danza) con direttore Nacho Duato, lui dava la possibilità ai ballerini di fare workshops. E le mie prime coreografie non le volevo neanche firmare, volevo lasciarle anonime, non mi azzardavo neanche ad anticipare il mio intervento nel programma. Poi, è stato molto bello: quando ho fatto il mio primo workshop e il sipario è andato giù Nacho è venuto da me e mi ha detto “Guarda Gentian, io penso che tu sia un coreografo”. È stato bello, ma mi ha anche intimorito.   

Cosa avviene alla base del Suo processo creativo, come si sviluppa?

Io sono coreografo per necessità direi, non si tratta di uno stile di vita. Prima viene la necessità di esprimermi, e teoricamente potrei farlo anche con un’installazione, o tramite il linguaggio cinematografico, magari. Ma sono campi che non mi appartengono, quindi uso la danza. Concepisco la coreografia come qualcosa di molto personale e come un mettere in relazione ciò che è intorno a me, perché, come diceva Gombrich, non si tratta di inventare ma di mettere in relazione ciò che è presente. E poi subentra l’inquietudine personale. Non ho molte idee, ne perseguo fondamentalmente una. In tutti i pezzi che ho creato riconosco un motore comune, un’affinità legata al tipo della mia inquietudine e alla sua necessità di esprimersi. In ogni processo creativo vivo anche un conflitto, non è qualcosa di soltanto piacevole. È qualcosa di necessario, che sa essere anche crudo e faticoso, come un processo di psicanalisi…perché se lo fai con onestà sei nudo.

In che misura il motore comune alle Sue opere e l’inquietudine di cui parla sono qualcosa di personale e specificamente legato alle Sue radici?

Le radici e le esperienze personali giocano un ruolo fondamentale, ma poi subentra qualcos’altro. Per esempio, io ho vissuto diversi anni della mia vita al tempo del comunismo in Albania. Questo mi ha influenzato moltissimo, è come se avessi avuto modo di conoscere nella mia vita due mondi completamente diversi. Però poco tempo fa ero a New York per un progetto con la Juilliard School e uno spettatore è venuto a dirmi quanto avesse percepito nella mia opera le mie origini albanesi, la dittatura e il resto. Allora gli ho risposto: “Aspetta, tu guardando il pezzo cosa hai sentito, oppressione?” “Sì”, ha detto lui. E quindi gli ho chiesto: “E tu, come abitante di 1New York, non ti senti oppresso?”. Ecco, quindi l’Albania c’entrava ben poco a quel punto: le radici dell’ispirazione sono naturalmente individuali e soggettive, ma poi si arriva ad un contenuto, ad una sensazione che sono universali. La danza per me è simile alla poesia. La poesia è universale, non è una cronaca di eventi, ma parla della sensazione che gli eventi producono.

Cosa cerca di ottenere dal dialogo con il pubblico, quando è che si reputa soddisfatto?

Mi ritengo soddisfatto se il pubblico uscendo dalla sala può sentirsi addosso una sensazione…nel migliore dei casi una domanda, un nuovo dubbio, un interrogativo. Allora mi sento soddisfatto. Non pretendo di dare risposte, non sono nessuno per darne. Ma creare la condizione per lo sviluppo di una nuova domanda, di una nuova inquietudine, questo è importantissimo. Il mio atteggiamento generale è più contemplativo che attivo. Il mio obiettivo è quello di rallentare, di trovare uno spazio di contemplazione che interrompa la confusione e il frastuono della vita quotidiana. L’artista contemporaneo ha paura di compromettersi, di essere esplicito, io cerco di vincere questo timore e espormi: desidero dare una direzione al mio pubblico pur lasciandolo libero di prendere il sentiero che preferisce.

Ha parlato, a proposito della Sua ultima creazione, “Was Bleibt”, del fatto che lo spazio che Lei cerca nel movimento è il vuoto. Cosa succede quando si trova questo vuoto?

Non l’ho ancora trovato. (Ride) La malattia più diffusa tra gli artisti è quella di pensare di dover esprimere ed esprimere, far sentire, sempre di più. Invece no, bisogna riuscire a stare, semplicemente stare e avere la percezione di quello che succede. Non ho contato per insegnare i passi e il giorno della prova generale ho lavorato senza musica. Il gruppo doveva sentirsi, la sincronizzazione doveva svilupparsi e avvenire a livello percettivo. Altrimenti, se viene da fuori, da un conteggio, si crea un’immagine morta, un’esposizione. Io voglio riuscire a mostrare il processo, il presente in cui il gruppo si sente e insorge il movimento.

Ci parlai delle funi all’inizio di “Was Bleibt”, cosa rappresentano?

Te lo relaziono con quello che viviamo. Abbiamo infinite possibilità, al giorno d’oggi, ma per riuscire a creare qualcosa e trovare una direzione abbiamo bisogno di creare delle strutture, dei limiti. Mi ha ispirato anche Francis Bacon: nei suoi quadri gli individui sono sempre iscritti in una piccola cornice sottile, quasi invisibile, disegnata dentro al quadro, e tramite quel limite, quel contorno, lui determina il punto focale dell’opera visiva.

Le possibilità sono infinite e se non le limiti non riesci ad approfondirne una. Mentre io vorrei riuscire ad approfondirne una così tanto, da non riuscire più a tornare indietro. Sono i limiti, le impossibilità che mi spingono a creare qualcosa, e alla base delle impossibilità c’è la paura. La paura, della morte, della solitudine, quella è il motore di tutto. Was Bleibt parla apparentemente di dinamiche sociali, ma in realtà il tema fondamentale è la solitudine…e non c’è peggiore solitudine di quando sei solo essendo circondato da persone. Per me è una necessità quella di confrontarmi direttamente con alcuni temi esistenziali.

Lei è religioso?

Non sono religioso, ma il mio cammino personale mi ha portato a sentirmi spirituale. Nell’infanzia sono venuto a contatto con la religione musulmana ed anche con il paganesimo, che influenza ancora molto la cultura del mio paese d’origine. Poi ho passato una fase durante la quale mi dichiaravo ateo per poi aver capito, infine, che non era propriamente così. Penso che sia importante credere in qualcosa. Che sia la natura, un dio oppure l’umanità. In albanese esiste un vocabolo specifico per esprimere il concetto di “dare la propria parola”, che è qualcosa che viene rispettato moltissimo, qualcosa in cui si ha fede. Ricordo come mi ha colpito il diario di Tolstoj, la spiritualità che ha sviluppato alla fine della sua vita, che consisteva fondamentalmente nell’avere la sensazione di essere un individuo, ma anche una parte del tutto.  

Cosa desidera per il Suo immediato futuro artistico?

Mi piacerebbe poter lavorare con un gruppo di danzatori per molto tempo, con continuità, per seguire un filo conduttore di approfondimento e vedere a cosa porta. Fare quindi qualcosa di indipendente e poter sviluppare un lungo processo di ricerca con un gruppo costante. A lavorare con le compagnie succede che passi due settimane a convincerli che sai quello che stai facendo, la terza settimana iniziano a crederti e la quarta settimana c’è già la prima…impossibile. In generale, ciò che desidero è rimanere fedele a ciò che ho necessità di esprimere e avere la possibilità, il tempo e lo spazio di farlo con professionalità e approfondimento.

Laura Venturi

ww.giornaledelladanza.com

                                                                                                          Photo Credits: Fernando Marcos                                                               

 

 

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