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L’ oscuro fascino di “Cabaret”

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“Willkommen”… il sipario si apre, metaforicamente parlando sul palcoscenico a tutto campo nella sua quasi nudità con a vista un velario e le quinte a sottolineare il decadimento morale ma anche materiale di un momento raccapricciante e cupo della passata storia europea, e da queste “ceneri annunciate” – con la luminaria del cabaret in rovinosa caduta, appesa “simbolicamente” ad un filo – compare sinuoso e insinuante il rivisitato Maestro di Cerimonie del “Kit Kat Club” (Giampiero Ingrassia, artisticamente sempre efficace e a proprio agio nel ruolo) il quale ci riporta ad uno squallido déjà-vu, poco tempo prima la nascita del Terzo Reich e l’ascesa del potere hitleriano.

La storia di “Cabaret” è ben nota, ricca di significati potenti e alquanto profondi. La produzione, a firma di Saverio Marconi con protagonista la Compagnia della Rancia, trova il suo punto forte nelle intense sfumature del Maestro di Cerimonie che entra ed esce dalla scena, spuntando all’improvviso, con la sicurezza di trovarsi al centro dell’allestimento in un ritrovo d’avanguardia anticonformista dal carattere allusivo e satirico.

La trama ripercorre liberamente quella del celebre film del 1972 magistralmente diretto dal geniale Bob Fosse con Sally Bowles (nella versione di Marconi interpretata dall’intensa timbrica e limpida vocalità di Giulia Ottonello), ballerina dello scintillante Cabaret, tipico degli anni trenta, in una sinistra e incerta Berlino. La protagonista, innamorata fin da subito dell’aspirante scrittore Cliff (un Mauro Simone di buona presenza ma ridotta credibilità nel personaggio) per un momento sogna di poter costruire e agognare ad un idilliaco futuro di coppia. A far da contorno alla “storia centrale” ruotano e si intrecciano, altri personaggi disposti sulla tavolozza, con le loro vicende (Altea Russo e Michele Renzullo con una citazione di merito per la spumeggiante Valentina Gullace), i quali ci prendono per mano e ci immergono in un dissoluto viaggio disperato tra potere e decadimento confermando, a distanza di anni, una narrazione sempre avvincente e attuale a conferma che “Cabaret” permane uno dei più grandi musical mai scritti per pathos ed energia.

L’allestimento di Marconi è risultato a tratti sottotono, forse alquanto stringato nell’organico interpretativo e numerico tanto che il ritrovare alcuni attori (pur comprimari) in diversi ruoli non ha giovato allo spettacolo né tanto meno lo ha fatto il Corpo di ballo, risultato molto lontano, anche tecnicamente, dai buoni propositi di una fissità immutabile con quel passaggio coreografico graduale da un colore a un altro tipico dei cabaret tedeschi d’antan.

Sicuramente lodevole da parte del regista Saverio Marconi, a distanza di anni dalle altre sue messe in scena del musical, il voler sottolineare maggiormente la parte drammaturgica eliminando tutto ciò che risulta sinonimo di lustrini e paillettes a favore di una scrupolosa considerazione, di una espressione di maturità e consapevolezza sul pensiero e la psiche umana grazie anche agli splendidi costumi di Carla Accoramboni.

Forse al pubblico meno attento appare difficile da cancellare il ricordo di Liza Minnelli, così credibile e pertinente nel ruolo di Sally Bowles da poter catturare da sola l’attenzione e catalizzare su di sé l’intera commedia musicale e, anche se senza volerlo, il paragone può mostrarsi un errore di giudizio compare però inevitabile e anche ineluttabile trovandoci di fronte a un “cult” della storia cinematografica del genere.

A tratti la confezione produttiva a cura della Compagnia della Rancia funziona, il regista dall’alto della sua professionalità è riuscito nell’essenziale direzione ad incastrare momenti di “poesia” pur con un ritmo frenante e una dizione lontana da ciò che dovrebbe essere. Tra i numeri celeberrimi, giusto ricordare per l’espressività del linguaggio “Money, Money”, “Mein Herr”, “Two Ladies”, “Tomorrow Belongs to Me”, “Maybe This Time” e “Life is a cabaret” nelle riuscite traduzioni e nell’adattamento italiano.

Il finale “inquietante” ha emozionato gli spettatori del Teatro Cagnoni di Vigevano e gli applausi sono piovuti generosi perché in fondo la “vita è un cabaret!”

Michele Olivieri

 

Foto di Giulia Marangon

 

www.giornaledelladanza.com

 

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