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La verbalizzazione e la danza: l’importanza della precisione del linguaggio per facilitare la corretta esecuzione del movimento


Uno degli aspetti più interessanti e stimolanti del mio lavoro di esperto in Medicina della Danza è rappresentato dalla collaborazione che si è creata, negli anni, con un numero sempre maggiore di Insegnanti di Danza con cui si discutono, di volta in volta, problematiche riguardanti non solo la prevenzione delle principali “malattie da danza” ma anche le strategie di lavoro riguardanti una più attenta analisi delle caratteristiche del corpo del danzatore, soprattutto se ancora bambino, per cercare di ottenere una tecnica sempre più adatta alle esigenze di ogni singolo individuo, senza perdere il rigore, l’eleganza e l’artisticità del movimento che sono alla base di qualsiasi forma di danza. Spesso, durante queste discussioni, ci si è trovati di fronte ad alcuni “modi di dire” o meglio ad una sorta di “linguaggio prefissato” con cui vengono identificate sensazioni e/o movimenti tipici della lezione di danza che, nonostante siano comunemente accettati e quasi sempre tramandati da generazione in generazione, non aiutano chi deve eseguire il movimento ad ottenere una giusta sensazione e favoriscono il crearsi di dubbi ed incertezze. Non è un caso che, nel suo ultimo ed esaustivo libro di testo “Dance Anatomy and Kinesiology” (Human Kinetics, 2007), Karen Clippiger abbia dedicato diversi spazi proprio all’approfondimento ed alla spiegazione, in termini anatomo-fisiologici, delle più comuni forme di correzione utilizzate nelle aule di danza (dance cues). Questo articolo tratterà dunque, seppur brevemente, della problematica della “descrizione verbale” della posa e/o del movimento, ovvero di come un uso attento della terminologia utilizzata possa aiutare insegnanti ed allievi ad ottenere risultati tecnici ed artistici migliori.

Data la grande quantità di osservazioni possibili sull’argomento, credo che il modo più semplice ed efficace di descriverlo sia una sorta di elenco nel quale tratterò, punto per punto, diverse sfaccettature del problema cercando di fornire sia esempi che spunti di riflessione. Per comodità di descrizione, nell’elenco sottostante, ho deciso di utilizzare soltanto esempi riguardanti la danza classica (più facilmente comprensibili in quanto riguardanti movimenti codificati), ma il problema di “descrivere a parole” il movimento riguarda qualsiasi tipo di movimento e quindi  qualsiasi tipo di tecnica.

1)     Durante la lezione di danza, la descrizione verbale di ciò che si vuole eseguire con il corpo si deve adattare all’età, all’esperienza ed alla capacità di attenzione di chi ascolta ma, anche nel caso di un linguaggio estremamente semplice (come quello utilizzato con i bambini o con i principianti), questo deve contenere il nome esatto della parte del corpo che si muove o sulla quale si vuole focalizzare l’attenzione. Più l’indicazione è precisa e dettagliata, più è facile ottenere il controllo desiderato: per esempio “state seduti sugli ischi” è un’indicazione più precisa (e quindi di più facile esecuzione) di “ state seduti con il bacino dritto”. Ovviamente indicazioni di questo tipo vanno sempre accompagnate da una spiegazione e da una sperimentazione pratica necessarie ad identificare la parte del corpo di cui si parla; l’uso di atlanti anatomici, immagini da colorare oppure di  modellini del corpo umano, aiuta la percezione delle singole parti del corpo e ne facilita la “visualizzazione mentale”.

2)     Una delle funzioni più imporatnti della descrizione verbale nella danza è proprio quella di creare un’immagine mentale del movimento stesso o del corpo atteggiato in una determinata posa. Suggerire un’immagine inadeguata significa, dunque, ottenere un risultato diverso da quello prefissato: quando, ad esempio, si chiede di stare in piedi con la “colonna vertebrale dritta“, nella maggior parte delle persone che ascoltano si evoca l’immagine di una struttura rigida e statica, come il manico di una scopa, che mal si accorda con le caratteristiche della nostra colonna vertebrale, dotata di ben quattro curve fisiologiche necessarie, nella danza come nella vita quotidiana, ad ammortizzare i carichi. Sempre a proposito della colonna vertebrale quando si propone, stando sdraiati supini, di “attaccare tutte la schiena a terra per allungare la colonna”, in realtà si stà proponendo un lavoro anti-fisiologico che porta ad un accorciamento della colonna vertebrale, ad una scomparsa delle curve fisiologiche, ad un irrigidimento di tutto il tronco e, se la posizione viene riproposta in stazione eretta, ad un sovraccarico del tratto lombare che può andare incontro più facilmente a patologie quali la discopatia e l’ernia del disco.

3)     Nel nostro corpo, il movimento avviene a livello delle articolazioni cioè del punto di contatto tra due o più ossa: per ottenere un movimento ampio, una delle due ossa deve rimanere ferma (punto fisso) e l’altra si deve muovere rispetto alla posizione iniziale. La descrizione del movimento deve fissare, innanzi tutto, l’attenzione sull’articolazione da cui il movimento nasce e, solo in un secondo tempo, può suggerire anche le “sensazioni” che accompagnano il movimento di danza e che, molto spesso, non sono non sono corrette dal punto di vista fisiologico ma mirano ad ottenere un uso funzionale di determinati gruppi muscolari. Per esempio, è giusto che il danzatore senta la spinta e l’energia del rond de jambe par terre dal piede ma deve avere ben chiaro che è l’articolazione dell’anca, ovvero la testa del femore rispetto all’acetabolo, che cambia la sua posizione dello spazio (passando dalla flessione, all’abduzione ed infine dall’estensione) e che gli permette di disegnare a terra il semicerchio con la punta delle dita.

4)     Il concetto di “punto fisso” nell’articolazione è importantissimo anche per sviluppare, in chi si muove, l’idea di “stabilizzazione dell’articolazione” che diventa un principio di vitale importanza quando si parla, ad esempio, dei movimenti delle due grandi articolazioni sferiche del nostro corpo ovvero l’anca e la spalla. Entrambe queste articolazioni possono muoversi in tutte le direzioni dello spazio e sono collegate al tronco attraverso il cingolo pelvico (detto anche bacino o pelvi) ed il cingolo scapolare (identificato di fatto con le scapole). Spesso, durante la lezione di danza, il termine “anca” viene utilizzato per descrivere sia l’articolazione sferica propriamente detta, che il bacino in generale: questo uso improprio del termine favorisce una gran confusione  nell’identificare, definire e percepire i movimenti basilari dell’anca (testa del femore rispetto all’acetabolo) per cui molto spesso, i giovani danzatori non sono capaci di mantenere il bacino fisso mentre la testa del femore, e quindi l’intero arto inferiore, si muove nello spazio. In questi casi può essere addirittura più funzionale utilizzare il termine meno scientifico “fianco” per indicare il bacino (ad esempio: “abbassa il fianco destro”) piuttosto che identificare due parti del corpo diverse con un solo nome. Parlando della spalla, inoltre, la situazione si complica ulteriormente perché il cingolo scapolare, molto più mobile del bacino, è ancora più difficile da stabilizzare: è proprio questo uno dei motivi che rende estremamente complicata l’impostazione degli arti superiori in quasi tutte le tecniche di danza sia classica che contemporanea. La spalla, anch’essa articolazione sferica, è composta dalla testa dell’omero che poggia sulla cavità glenoidea della scapola: quest’osso piatto di forma triangolare, appoggiato contro la parete delle costole nella parte posteriore del nostro torace, è però in grado di compiere diversi movimenti che possono essere indipendenti oppure accompagnare i movimenti della testa dell’omero e quindi dell’intero arto superiore. La terminologia di danza, anche in questo caso, utilizza il termine “spalla” per indicare anche i movimenti isolati della scapola sul torace senza il coinvolgimento della testa dell’omero (es: “abbassa le spalle”): la confusione generata non aiuta a comprendere il lavoro in opposizione (stabilizzazione) che la scapola deve fare quando l’arto superiore sale sopra la testa (port de bras).

5)     Quasi tutte le articolazioni del nostro corpo sono in grado di eseguire soltanto determinati movimenti: nella descrizione del movimento può essere utile fare attenzione a quale articolazione si stà in realtà muovendo. Per esempio, individuare esattamente il corpo dell’astragalo tra i due malleoli e sapere che la caviglia (articolazione tibio-tarsica) può compiere soltanto movimenti di flessione ed estensione, può aiutare a migliorare il proprio “collo del piede” grazie alla percezione di un movimento che parte molto più in alto (prossimalmente) di quanto normalmente si creda e soprattutto spostando l’attenzione dalla parte posteriore a a quella anteriore della caviglia; ciò corrisponde, inoltre, ad un’uso più funzionale dei muscoli flessori profondi del piede e ad un alleggerimento del carico sul muscolo tricipite surale e quindi sul tendine d’Achille. Detto questo, è facile comprendere perché, durante le lezioni di propedeutica o di sbarra a terra, sia preferibile dire “fate circonduzione del piede” che non “fate circonduzione della caviglia”: il movimento richiesto, infatti,  è svolto non da una ma da più articolazioni che lavorano in sequenza (tibio-tarsica, sotto-astragalica, medio-tarsica).

6)     Mettere in fila due o tre punti scheletrici lungo un asse immaginario rappresenta uno dei più efficaci metodi utilizzati nella danza per stimolare l’uso corretto della muscolatura profonda: descrivere verbalmente l’allineamento del tronco e degli arti, soprattutto quelli inferiori, stimola automaticamente l’attivazione dei muscoli che servono a mantenere allineati i diversi segmenti scheletrici. In questo modo, i vari muscoli lavorano in maniera più equilibrata, insieme ai loro sinergici (muscoli che lavorano insieme) ed ai loro antagonisti (muscoli che compiono l’azione opposta) e si crea una forma di controllo più profondo sia della posizione che del movimento. Tale tipo di lavoro, rende inutili correzioni del tipo “sostieni la pianta del piede” che produce, come risultato immediato, la brusca ed eccessiva contrazione del muscolo tibiale anteriore: è vero che, apparentemente, l’aspetto estetico del piede d’appoggio migliora, ma è anche vero che questo tipo di lavoro irrigidisce le caviglie rendendo molto più difficile il movimento di demi plié. In questi casi è molto più funzionale verificare se il giovane danzatore non stia sforzando il suo en dehors (overturn o rotazione esterna forzata) e ristabilire il giusto allineamento verbalizzando la descrizione della corretta distribuzione del carico sui punti d’appoggio del piede.

7)     Per stimolare un lavoro muscolare equilibrato, la verbalizzazione del movimento dovrebbe essere più incentrata sulla posizione o sullo spostamento dei segmenti scheletrici che non sull’azione dei muscoli specifici: se io penso di un usare precisamente un gruppo muscolare, spesso lo uso “troppo” cioè produco una contrazione molto più intensa del necessario e, invece di facilitare il movimento, posso renderlo più complesso. A tale proposito non posso fare a meno di portare ad esempio due correzioni molto comuni nelle aule di danza che sono, in entrambi i casi, imprecise dal punto di vista anatomo-funzionale e quindi non aiutano il movimento. La prima correzione, “tieni il piccolo gluteo per mantenere l’en dehors”, accompagnata di solito da una stimolazione tattile nella zona delle pieghe glutee (parte bassa dei glutei), ha origini lontane ed ancora oggi imprecisate ma rappresenta il chiaro esempio di un vero e proprio errore anatomico: il muscolo piccolo gluteo non si trova, infatti, nella parte inferiore e posteriore della natica ma lateralmente e superiormente rispetto all’articolazione dell’anca e, soprattutto, ruota la testa del femore in dentro e non in fuori; la sua attivazione, quindi, produce normalmente il movimento opposto a quello suggerito. Agli Insegnanti di Danza che utilizzano ancora questo suggerimento consiglio di riflettere sull’importanza dei muscoli rotatori profondi dell’anca (muscoli pelvi-trocanterici), sul ruolo dei muscoli del pavimento pelvico e sull’attivazione dei muscoli adduttori dell’anca nel mantenimento della posizione ruotata dell’arto portante.  La seconda correzione, anch’essa molto amata, invita a “tenere i glutei contratti durante la fase di discesa del plié”: il risultato di questo richiamo verbale è, appunto, un’eccessiva attivazione di potenti muscoli estensori dell’anca proprio mentre tale articolazione deve compiere un movimento di flessione ed ha, come risultato finale, una limitazione della profondità e della fluidità del plié. Questo non vuol dire che durante la discesa del plié i glutei debbano essere rilassati: se così fosse, il bacino non potrebbe rimanene in posizione corretta (posizione neutra o verticale) ma, per ottenere questo risultato, è più funzionale suggerire al danzatore di pensare appunto alla direzione dello scheletro (ischi, spine iliache, rotule, ecc.) in modo che il suo Sistema Nervoso possa attivare i muscoli necessari a mantenerlo nella posizione desiderata senza fatica e senza sforzi inutili.

8)     In alcuni casi, un suggerimento apparentemente errato dal punto di vista fisiologico, parte da una giusta osservazione e può avere, in fin dei conti, un effetto positivo sul movimento anche se genera nel danzatore errate convinzioni. Durante l’esecuzione del grand battement jeté en avant, ad esempio, spesso viene suggerito di “usare i muscoli posteriori della coscia per sollevare la gamba”: questo evidente paradosso biomeccanico (i muscoli posteriori della coscia sono estensori dell’anca e non flessori) cerca di evitare una contrazione massiccia e concentrica del muscolo quadricipite per sollevare l’arto libero in flessione ma crea inevitabilmente confusione in quanto molti danzatori credono veramente che la contrazione dei muscoli posteriori della coscia produca lo spostamento della stessa in avanti. Lo stesso risultato potrebbe essere ottenuto, usando un linguaggio più funzionale, enfatizzando il lavoro del piede che striscia al suolo fino a che la punta non si stacca da terra e poi facendo porre l’attenzione al lavoro in opposizione degli ischi, che spingono verso il pavimento rimanendo perfettamente simmetrici, e della punta del piede che tira verso la parete di fronte, mentre tutto il resto del tronco è stabile sull’arto portante.

Gli esempi e le osservazioni su questo argomento potrebbero continuare all’infinito ma, a questo punto, credo di aver offerto una panoramica abbastanza ampia e dettagliata di come la verbalizzazione del movimento possa rappresentare uno “strumento a doppio taglio”, capace di aiutare ma anche di complicare le sensazioni e le percezioni del danzatore. Ovviamente la precisione della “descrizione verbale” del movimento non deve diventare un’ossessione o una fonte di stress per chi conduce la lezione: i suggerimenti dipendono, in gran parte, dall’esperienza e dalla creatività dell’Insegnante che può utilizzare anche immagini imprecise o paradossali, se le ritiene efficaci, ma che dovrebbe avere sempre ben chiaro il motivo per cui le utilizza e, soprattutto, dovrebbe integrarne l’uso con una spiegazione più “scientifica” del movimento. In questo modo, tutti gli studenti ne trarrebbero giovamento: sia quelli che catturano il movimento attraverso l’osservazione e la ripetizione istintiva del gesto, sia quelli che invece necessitano di una spiegazione più graduale e di una costruzione logica del gesto o della posa.

Credo fermamente che alla base di una verbalizzazione efficace e precisa ci debba essere, sia da parte di chi parla che parte di chi si muove, la consapevolezza della struttura e del funzionamento di questo meraviglioso strumento che è il corpo umano. Soltanto conoscendo i principi che regolano il movimento, infatti, ogni danzatore potrà cercare di avvicinarsi a quella purezza di esecuzione che tutti sognano ma che pochissimi riescono ad ottenere.

Luana Poggini

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