(Intervista del 25 febbraio 2011)
Luigi Gregori, detto Gino Landi, nasce nel 1933 a Milano, sul palcoscenico del Teatro Dal Verme, i suoi genitori si trovavano li per uno spettacolo. A 15 anni conosce la passione della danza e da allora ha costruito una carriera fatta all’insegna della danza di qualità.
Cos’è per Lei la coreografia?
Per me è la vita! Io sono un figlio d’arte, sono nato in palcoscenico, ero destinato a questo lavoro. Ho iniziato a 15 anni coreografando piccoli spettacoli, mi pagavano con i gelati!
Quanto è importante per un coreografo poter curare la regia dei propri balletti?
Ho sempre pensato che il coreografo è anche il regista dei propri balletti. Quando capita di lavorare con registi che amano la danza e la conoscono è sempre un piacere collaborare. Purtroppo però in Italia in pochi conoscono bene questa disciplina.
Regia televisiva e regia teatrale di un balletto
Due cose completamente differenti. In teatro è il pubblico a scegliere la propria inquadratura, la propria ballerina da seguire, sceglie chi vuole seguire. In televisione lo spettatore è costretto a seguire ciò che il regista decide di mostrare. C’è un problema anche di tempi coreografici di cui il teatro ha bisogno, ma quei tempi coreografici riportati in tv non funzionano. La televisione costruisce molto, e forse anche troppo, con i montaggi che creano più dinamismo.
I programmi televisivi più importanti degli anni ’80 portano la Sua firma. Che anni sono stati quelli, per la danza qui in Italia?
Sono stati estremamente interessanti perché sono stati un po’ la transizione tra quello che si conosceva in Italia, parlando di danza intesa come spettacolo, con quello che portava il cinema americano.
Ci sono produzioni di quegli anni a cui lei è particolarmente legato?
Ricordo con molto piacere tutte le produzioni che ho fatto con Antonello Falqui.
C’è un aneddoto che ricorda particolarmente di quelle produzioni?
Io con gli aneddoti sono un disastro! Sicuramente quello che il pubblico ricorda maggiormente risale ad un Fantastico con Lorella Cuccarini, la quale mentre eseguiva la sigla di apertura perse una scarpa che andò a finire addosso al Direttore Generale della Rai.
Quelle trasmissioni così popolari hanno regalato alla danza moderna italiana delle importanti ballerine come Heather Parisi e Lorella Cuccarini. Come mai oggi non accade più questo?
C’è da dire che la danza in quel periodo aveva un grande peso nello spettacolo, c’era un pubblico vastissimo che seguiva i balletti nelle trasmissioni, oggi le cose sono molto cambiate, l’unica vetrina al momento, che offre qualcosa alla danza, è la trasmissione Amici. Questo è dovuto anche al fatto che adesso serve un altro tipo di donna. Le ballerine non erano maggiorate, mentre oggi le donne che vediamo in televisione hanno un’altra immagine, C’è da aggiungere anche che il corpo di ballo costa, ha dei costi nella sua totalità parlando di costumi, accessori, scenografie.
Quale può essere il segreto per emergere e fare strada nel mondo della danza televisiva?
Bisogna forse creare nel pubblico un minimo di “divismo” dei danzatori. Nelle tantissime produzioni che ho curato negli anni ’80 ho cercato sempre di rinnovarmi, di fare cose nuove. Ricordo ad esempio che una volta, quando il look non era ancora una fattore così determinante come lo è oggi, decisi di rendere particolare il mio corpo di ballo scegliendo tutti ragazzi dai capelli biondi. La combinazione volle che però scelsi tutte ragazze more che dovettero tingere i capelli. Fu il primo tentativo di cercare di lanciare un’immagine.
Quanto lavoro c’era dietro quelle coreografie?
Tornando un po’ indietro con gli anni, intorno agli anni sessanta, ricordo che non c’erano limiti d’orario, entravamo in sala prove alle 9 del mattino ed uscivamo a mezzanotte. Questo perché spinti dalla curiosità e dalla voglia di sperimentare cose nuove. Successivamente si ebbe una regolarizzazione di questo “strafare”. C’era molto lavoro e molta attenzione all’ensamble, cioè un corpo di ballo che lavora omogeneamente tutto insieme, oggi non è così.
Cosa succedeva in teatro in quegli anni?
Gli anni ottanta per quanto mi riguardano sono all’insegna di una delle collaborazioni per me più importanti, quella con Garinei e Giovannini che tuttavia era iniziata già anni prima. Furono anni molto piacevoli perché ho sperimentato l’utilizzo della danza mettendola a disposizione delle storie, i danzatori devono esprimersi per quello che la trama richiede. E’ stato un momento di grandi soddisfazioni, molti spettacoli di allora sono in scena tutt’oggi.
Secondo Lei, ci sono oggi dei buoni danzatori?
Credo proprio di sì. Secondo me, i buoni danzatori sono quelli che provengono dallo studio della danza. Oggi, si dice troppo facilmente che un danzatore è bravo.
In un’audizione, cosa ricerca nei danzatori?
Se devo fare uno spettacolo teatrale, vado a cercare il buon carattere, gente che ama la collettività. Lo capisco da come si vestono, da come si propongono. In questo caso non è sempre determinante l’esecuzione del passo, ma anche come si rapportano con gli altri, in prospettiva di dover intraprendere insieme delle tournèe.
Un sogno nel cassetto?
Ho un cassetto pieno di sogni. I sogni non vanno sprecati, per tirarli fuori serve l’occasione ed il momento giusto.
Alessandro Di Giacomo