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Ottimo riscontro per il Peer Gynt alla Scala [RECENSIONE]

Dopo il debutto nel 2015 per il “Balletto Nazionale Sloveno” di Maribor è arrivata nel tempio milanese la creazione di Edward Clug (assistenti coreografi Miloš Isailović e Mirjana Šrot), come primo titolo della ripresa alla direzione artistica di Frédéric Olivieri, in due atti sull’intima e sublime musica di Edvard Grieg.

Per comprendere al meglio la difficoltà di trasporre in danza una storia complicata come quella di Henrik Ibsen per il suo protagonista alla continua ricerca non solo della giusta strada, ma anche di sé stesso nei sogni e nella realtà, basti pensare che il drammaturgo norvegese scrisse il dramma in versi (lo fece in Italia nel 1867 tre anni dopo aver lasciato il Paese natìo) per poi nel 1874 adattarlo al teatro.

Edward Clug riesce grazie all’arte della danza nell’impresa di far coincidere tutti i tratti salienti e gli ingredienti necessari per punteggiare caratterialmente i differenti ruoli. Da Åse (la madre di Peer Gynt) interpretata con profondità da Alessandra Vassallo, dal fabbro Asiak (l’imperioso Marco Agostino) che cerca di togliergli la vita con un’accetta trasformando l’arma in una figura danzante sui ciocchi di legna presenti in palcoscenico, dalla Morte (Christian Fagetti, qui anche alla prova recitativa in lingua tedesca) che lo aspetta e da cui lui si svincola con un riuscito gioco di illusione, del passare del tempo, della pazzia, delle donne che il cacciatore solitario ama e abbandona.

Le due ore (compreso un intervallo di venti minuti) trascorrono veloci con il fondamentale supporto delle partiture di Grieg eseguite dall’Orchestra del Teatro alla Scala diretta con sensibilità da Victorien Vanoosten a cui si aggiunge una nota di merito per Leonardo Pierdomenico al pianoforte e per il Coro dell’Accademia Teatro alla Scala diretto da Bruno Casoni.

Peer Gyent è una fervida opera sull’immaginazione, che come giusto sia non segue regole fisse né legami logici, e proprio per questo rappresenta quel luogo fondamentale per sperimentare possibilità diverse. Vivendo nuovi scenari nel suo microcosmo interno il personaggio del titolo assapora l’effetto con qualcosa che non c’è ma non per questo non potrà esistere.

La capacità del protagonista (e di Clug nel realizzarlo) di dare corpo a quello che non esiste e di essere intraprendente, è ciò che sta alla base del successo duraturo del balletto. È un ruolo che impegna per la costante presenza in scena, per l’interiorizzazione sofferta, per la ricchezza delle sfumature, per gli eccessi voluti da Ibsen nel simboleggiare le debolezze.

Nella seconda rappresentazione di venerdì 11 aprile il protagonista è stato interpretato con assoluta convinzione dal primo ballerino scaligero Timofej Andrijashenko, forte, duttile, affascinante, magnanimo. Ha danzato con tutto sé stesso senza risparmiarsi, come se il ruolo fosse stato cucito su di lui. Martina Arduino, nei panni di Solveig, è la paziente bussola di Peer, eccellente nel catturare quella struggente delicatezza e quella tenerezza che saranno poi le basi della salvezza del protagonista.

Come da tempo ci ha abituati, tutta la compagnia scaligera è in ottima forma e preparazione. Come non citare il maestoso cervo di Emanuele Cazzato che ad apertura di sipario Peer Gynt sogna di cacciare. La sposa Ingrid danzata da Agnese Di Clemente, la donna vestita in verde di Caterina Bianchi (la quale interpreta anche Anitra), Mads Moen ballato dal sempre più distintivo Domenico Di Cristo, dalla piccola sorella di Solveig dal nome Helga (Sabrina Solcia), dal medico Begriffenfeldt (Matteo Gavazzi), dai quattro “straordinari” matti (Maria Celeste Losa, Denise Gazzo, Saïd Ramos Ponce, Domenico Di Cristo), dalle tre ragazze della Malga (Giorgia Sacher, Chiara Ferrara, e da Eva Stokic che ha sostituito per una improvvisa indisposizione l’annunciata Martina Valentini) e dal capo dei troll (Edoardo Capolaretti). E via via il restante corpo di ballo, ognuno con le proprie personalità nel definire la descrizione espressiva e tecnica.

Peer Gynt si imbatte in molte avventure e disavventure, viaggia tra le sabbie del deserto egizio e giunge sulle coste del Marocco, viene truffato dalla figlia di un beduino prima di essere rinchiuso in un manicomio dove viene maltrattato. E proprio qui ritroviamo la più bella costruzione coreografica della serata, carica di energia, che pervade a tutto tondo il corpo, il gesto, e l’intenzione. Ormai anziano Peer Gynt rientra in Norvegia e rivivendo i flashback della sua intemperante giovinezza – dove ogni personale dolore si commisura al senso complessivo della vita vissuta si riunisce alla costante presenza di Solveig. E parte con lei (finalmente) in piena coscienza verso l’aldilà.

Questo momento racchiude tutta la poesia della creazione di Clug, che riserva allo spettatore un affresco coreutico moderno con accenti di surrealismo, giocoso ma profondo, potente nella teatralità, ricco di simbolismi e di allegria (come ad apertura di secondo atto quando ritroviamo il protagonista all’interno di una capsula spaziale a gettoni, tanto in voga in passato all’uscita dei grandi magazzini, nei parchi divertimenti o nelle sale-gioco). Senza rovinare la sorpresa a chi si recherà ad assistere, il balletto colleziona alcuni colpi di scena e soluzioni indubbiamente curiose.

Si ritrovano atmosfere gotiche nelle scene di Marko Japelj, nei fantasiosi costumi di Leo Kulaš e nelle suggestive luci di Tomaz Premzl (a volte un po’ troppo persistenti nell’oscurità) e nei momenti di festa con i ballabili ricavati da rimandi antichi e popolari legati alle terre del nord. Complessivamente la coreografia è vivace con un lavoro neoclassico che sfocia nel vocabolario contemporaneo. Le gestualità sono contraddistinte da evocative varianti ritmiche. Ottimamente riuscito il passaggio con i tappeti etnici che a loro volta si trasformano in figure danzanti.

Il mutamento del giovane uomo in anziano è a vista grazie all’uso di polvere bianca che gli viene lanciata addosso, ma che nel finale Solveig gli rimuove dai capelli… per lei Peer Gynt sarà per sempre giovane! Romanticissimo il passo a due sulle note dell’adagio del Concerto per pianoforte in la maggiore op. 16.

Il Piermarini è risuonato da prolungati applausi per un lavoro inusuale, sicuramente onirico ma al contempo tangibile, conquistando grazie al candore sensibile e all’ardimentosa inquietudine.

Michele Olivieri

Foto di Brecia-Amisano, Teatro alla Scala

www.giornaledelladanza.com

© Riproduzione riservata

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