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PROSPETTIVE01 – Manfredi Perego: “In un viaggio puoi incontrare tanti te”

M. Perego

“Prospettive01” è una rubrica rivolta ad artisti e contesti che rappresentano un mondo di talenti in continua evoluzione. Ideata e curata da Lorena Coppola, la rubrica si propone di raccogliere una serie di interviste e di articoli mirati a dar voce e spazio a tutte le fasce creative del mondo coreutico che costituiscono giovani realtà in via di sviluppo ed espansione, progetti innovativi, o realtà già consolidate, di spiccato talento, meritevoli di attenzione. Un luogo di rivelazione e di incontro di nuove prospettive.

Manfredi Perego nasce a Parma nel 1981. Pratica diversi sport ed arti marziali sino all’incontro con la danza contemporanea. Nel 2006 consegue la Laurea in Progettazione per lo Spettacolo presso L’Accademia di Belle arti di Bologna con una tesi sull’improvvisazione nella danza. Nel 2002 è borsista presso l’Accademia Isola Danza della Biennale di Venezia diretta da Carolyn Carlson. Dal 2003 ad oggi inizia a lavorare per diverse compagnie di danza e teatro-danza in Italia, Svizzera e Germania. I questi anni approfondisce lo studio del Floorwork e della Contact Improvvisation. Vincitore del Premio Equilibro 2014 e autore di molti progetti coreografici di grande spessore, in questa intervista racconta al giornaledelladanza la genesi di Dei Crinali, la sua ultima creazione.

Come nasce il progetto “Dei crinali”?

Dei crinali nasce da un’evoluzione del precedente spettacolo Grafiche del silenzio, che mi ha sollevato delle necessità di indagine qui ampliate e approfondite. L’idea determinante è poi arrivata da una passeggiata in montagna in cui mi sono trovato sopra un crinale: improvvisamente ho capito che quel luogo, quell’immagine e quella situazione catalizzavano perfettamente e andavano ad approfondire quelle che erano le motivazioni venute fuori da Grafiche del silenzio. Le tematiche che mi interessava indagare erano insite nella camminata: il silenzio e il tentativo di parlare di un luogo astratto come un crinale; inoltre la presenza del paesaggio che può essere sia naturalistico che umano, dove da una salita si arriva poi a uno svuotamento del corpo, dell’anima.

Ti sei ispirato a qualche fonte filosofico-letteraria?

Mi ha aiutato molto il libro La grande immagine non ha forma, in cui vi è un confronto tra la pittura occidentale e quella cinese. Si mette a fuoco il fatto che nella pittura cinese non viene rappresentato l’aspetto naturalistico del paesaggio, ma la disposizione di elementi, che nascondono l’interezza della forma, il che porta l’osservatore a completare il quadro in maniera autonoma. Mi sembra che quest’ultima caratteristica corrisponda perfettamente al pubblico che si trova di fronte a un corpo in scena: si possono trovare delle similitudini in ciò che si osserva, ma ogni persona può guardare lo stesso corpo e avere percezioni e associazioni di immagine differenti.

Come sei arrivato a tradurre questi pensieri nei corpi in scena? Che lavoro hai svolto?

All’inizio di un lavoro mi piace sempre semplificare e in questo caso mi sono chiesto da dove si parta per una camminata: se la risposta è “si parte dal basso” anche il movimento coreografico partirà dal basso. Il passo successivo è chiedersi cosa vuol dire partire dal basso e voler salire verso l’alto: c’è una fatica non solo fisica ma anche emotiva che è diversa e cambia a ogni stadio della camminata (quando si è all’inizio la fatica è completamente differente da quella provata a quando si è arrivati in cima). Ho creato così un percorso che rimanda al paesaggio naturale e a quello emotivo corrispondente, cercando di analizzare le mie sensazioni. Non è un lavoro autobiografico in cui racconto la mia esperienza della scalata; penso che sia interessante che le persone si lascino suggestionare e trovino dei parallelismi: salire e andare in un posto può essere la metafora di qualsiasi percorso umano, quello che porto io è solo un punto di vista.

Il percorso dell’uomo che sale e va verso una cima – letteralmente e metaforicamente parlando – me lo figuro come un percorso solitario e invece in questo spettacolo ci sono tre danzatori in scena…

È vero, è un percorso solitario, però è anche un percorso paesaggistico e quindi i corpi sono sia scenografia in movimento che moltiplicazione degli aspetti dell’uomo. Se sei predisposto all’ascolto, in un viaggio puoi incontrare tanti “te”, altre dimensioni proprie nascoste che in questi momenti vengono fuori. Quindi mi sembrava corretto moltiplicarmi e lasciare queste indicazioni drammaturgiche e di movimento, vedendo come risuonavano in altre persone, in altri corpi.

A livello compositivo come avete lavorato?

Abbiamo messo a punto un lavoro di improvvisazione (singolo, a due) con dei limiti molto chiari che davo inizialmente partendo da immagini e sensazioni; le improvvisazioni aumentavano il grado di specificità e quando il materiale ci sembrava funzionale e funzionante ne fissavo i movimenti coreografici. Ci sono state delle improvvisazioni che ho preferito tenere più aperte lasciando che fosse l’esperienza a stratificarne il percorso coreografico, il lavoro coreografico è arrivato grazie ad un processo di chiarimento dei materiali di movimento. Ho poi scelto spazi, ritmi, tempi, stando sempre attento a far sì che il limite e l’immagine fossero precise e combaciassero con la mia visione del lavoro. Gli elementi fisici in scena cambiano moltissimo: durante la mia camminata ho incontrato tanti paesaggi e materiali diversi (roccia, vento, pioggia, alberi…); se li si interiorizza allora si trova a livello scenotecnico il modo di creare la tecnica del corpo che possa esprimere quel concetto lì. Ad oggi non mi interessa avere una coerenza di movimento lungo tutto il lavoro, mi interessa che il percorso sia coerente, poi le varie azioni sono necessarie perché tutto il mondo cambia e io voglio cambiare dentro uno spettacolo. La coerenza per me è il cambiamento.

Nella scheda di presentazione dello spettacolo parli di “sospensione”: come si può tradurre in danza questo concetto?

Si può tradurre dopo un grande percorso di fatica, quando la lasci andare. Lo spettacolo parla molto della terra e solo nell’ultimo momento c’è questo lasciarsi andare: è quando sei nel momento presente che ti sospendi, quando lasci andare un po’ di tensione, di aspettative o i tanti pensieri che si affastellano nella mente. La sospensione è intesa anche come stato d’animo, di apertura e concentrazione. La ricerca della sospensione nel movimento può essere affrontata da diversi punti di vista e direzioni, in questo caso passa tramite una fatica e quindi si va tramite tentativi di innalzamento. Dei crinali è un lavoro che parla di tentativi, è sulla fatica.

Cosa speri che lo spettatore si porti via dopo aver visto il tuo spettacolo?

Anche solo una suggestione, anche solo un piacere, anche solo un rifiuto.

Lorena Coppola

www.giornaledelladanza.com

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