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Lo Schiaccianoci di Nureyev – Rai5, Teatro alla Scala [RECENSIONE]

Lo Schiaccianoci di Rudolf Nureyev trasmesso la sera di Natale su Rai5 dal Teatro alla Scala non è una fiaba rassicurante: è un viaggio nella memoria, nel desiderio e nella crescita.

In questa storica versione, Nureyev trasforma il balletto natalizio per eccellenza in un racconto psicologico, denso di simboli, dove l’infanzia non è un rifugio ma una soglia da attraversare.

La ripresa televisiva ne esalta la ricchezza coreografica e la complessità drammaturgica, permettendo allo spettatore di cogliere dettagli che in sala rischiano di sfuggire.

Al centro di questa trasmissione brillano Nicoletta Manni e Timofej Andrijashenko, una coppia che incarna con coerenza l’anima nureyeviana del balletto.

Nicoletta Manni disegna una Clara intensa, mai leziosa: la sua danza è tutta costruita su una qualità interiore del movimento, su un fraseggio pulito che cresce scena dopo scena. Non interpreta una bambina, ma una giovane donna in formazione, e lo fa con una musicalità raffinata e una presenza scenica che cattura senza forzare. La sua Clara pensa, sogna, ricorda: ogni gesto sembra nascere da una necessità emotiva, non da un semplice virtuosismo.

Timofej Andrijashenko affronta il doppio ruolo di Drosselmeyer e del Principe con intelligenza teatrale. La sua danza è nobile ma mai rigida, potente senza ostentazione. Nei passaggi più tecnici mantiene una solidità impeccabile, ma ciò che colpisce davvero è la qualità del suo port de bras e la capacità di “raccontare” attraverso il corpo. Il suo Principe non è un eroe fiabesco, bensì una proiezione, un ideale, un’ombra adulta che guida Clara nel suo percorso di trasformazione.

La coreografia di Nureyev, eseguita dal Corpo di Ballo della Scala con precisione e stile, conferma la sua natura monumentale: geometrie complesse, continui rimandi narrativi, una danza che non concede nulla al decorativo fine a sé stesso.

Ogni passo ha un peso, ogni scena un significato. La regia televisiva di Rai5 accompagna con rispetto questo impianto, alternando campi larghi e primi piani che valorizzano tanto l’insieme quanto l’espressività dei solisti.

Ne emerge uno Schiaccianoci colto, stratificato, profondamente umano. Non consola, ma affascina; non semplifica, ma invita a guardare più a fondo. E proprio grazie all’interpretazione sensibile di Manni e Andrijashenko, questa trasmissione diventa qualcosa di più di una semplice ripresa: è un incontro raro tra grande danza, grande musica e una visione artistica che continua a interrogare lo spettatore, anche dopo l’ultimo accordo.

La versione di Schiaccianoci firmata da Rudolf Nureyev rappresenta una frattura netta con la tradizione ottocentesca del balletto-fiaba. Non si tratta di un semplice riallestimento più virtuosistico o spettacolare, ma di una vera riscrittura concettuale del titolo: Nureyev sposta il baricentro dall’incanto esterno all’esperienza interiore, trasformando la narrazione in un dispositivo psicoanalitico ante litteram.

Il punto di partenza è la centralità di Clara, che in Nureyev non è più un pretesto narrativo ma il vero motore drammaturgico. Tutto accade attraverso il suo sguardo: la festa iniziale, i personaggi grotteschi, le deformazioni del sogno, fino alla figura ambigua del Principe.

Questo ribaltamento rende lo Schiaccianoci una storia di passaggio, non di evasione. L’infanzia non viene idealizzata, bensì mostrata come uno spazio instabile, attraversato da desideri confusi, paure e proiezioni.

Elemento chiave di questa lettura è la fusione dei ruoli di Drosselmeyer e del Principe, che introduce una tensione irrisolta e volutamente perturbante. Nureyev suggerisce che la figura maschile non sia un “salvatore”, ma una costruzione mentale: una guida, un’ombra, forse un riflesso del mondo adulto che Clara sta per affrontare.

Questa ambiguità, spesso considerata problematica, è in realtà il cuore dell’operazione nureyeviana: lo Schiaccianoci non promette risposte, ma espone il processo stesso della crescita.

Dal punto di vista coreografico, Nureyev rifiuta l’idea di danza come puro ornamento. Il suo vocabolario è denso, a tratti sovraccarico, e richiede allo spettatore uno sforzo di lettura.

Le danze di carattere non sono semplici parentesi esotiche, ma frammenti di un immaginario frammentato; il virtuosismo maschile, potenziato rispetto alla tradizione, diventa un segno di tensione più che di trionfo.

Anche il Grand Pas non è mai completamente abbandonato alla celebrazione: resta attraversato da una sottile inquietudine.

In questa prospettiva, la versione Nureyev può risultare meno “natalizia”, meno immediata, persino ostica. Ma è proprio questa sua resistenza a renderla ancora oggi attuale.

Nureyev non usa Čajkovskij per rassicurare, bensì per interrogare: la musica, così familiare, viene messa al servizio di una narrazione che parla di identità, memoria e desiderio.

Alla Scala, e in particolare nella lettura interpretativa di Nicoletta Manni e Timofej Andrijashenko (con la splendida partecipazione degli allievi della Scuola di Ballo dell’Accademia del Teatro alla Scala) questa visione emerge con chiarezza: Clara non sogna semplicemente un mondo migliore, ma impara a guardarlo. E lo spettatore, con lei, è chiamato a fare lo stesso.

Lo Schiaccianoci di Nureyev, in definitiva, non è un balletto “su” un sogno, ma un balletto sul meccanismo stesso del sognare. Ed è per questo che continua a dividere, affascinare e resistere al tempo.

Michele Olivieri

Foto di Brescia-Amisano, Teatro alla Scala

www.giornaledelladanza.com

©️ Riproduzione riservata

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