Nel cuore del Novecento, tra le rovine di una Germania che cercava di rialzarsi, nacque una voce capace di riscrivere il linguaggio del corpo: Pina Bausch.
Coreografa, danzatrice e visionaria, Bausch ha rivoluzionato la danza contemporanea fondendo gesto, parola e teatro in una sintesi inedita, emotivamente travolgente: il Tanztheater.
Philippine “Pina” Bausch nacque il 26 luglio 1940 a Solingen. Fin da giovanissima, mostrò una spiccata sensibilità per il movimento e una straordinaria capacità di assorbire il mondo che la circondava.
Studiò alla Folkwang Hochschule di Essen, sotto la guida di Kurt Jooss, uno dei pionieri della danza espressionista.
L’esperienza americana presso la Juilliard School di New York la mise in contatto con la modern dance di Martha Graham, José Limón e Paul Taylor: un contrasto vivificante rispetto all’approccio tedesco, più radicato nell’espressività del volto e nella narrazione simbolica.
Nel 1973, Pina Bausch divenne direttrice artistica del Tanztheater Wuppertal, la compagnia che avrebbe preso il suo nome consacrandola al mondo.
I suoi primi lavori, accolti con diffidenza dal pubblico, rompevano gli schemi della danza classica e moderna: non più virtuosismi e perfezione, ma corpi vulnerabili, che tremano, inciampano, ridono, si interrogano.
Titoli come “Café Müller” (1978), “Kontakthof” (1978) oppure “Il lamento dell’imperatrice” (1990, l’unica opera cinematografica realizzata da Pina Bausch) sono diventati emblematici di questo nuovo approccio.
Bausch non si limitava a coreografare: scavava nelle memorie dei danzatori, li spingeva a raccontare la propria vita attraverso il movimento, creando un’arte collettiva e profondamente umana.
La ripetizione, l’assurdo, l’intimità e la crudeltà delle relazioni umane erano elementi centrali della sua poetica. Le sue opere non offrivano risposte, ma domande, sospese nel corpo e nello spazio.
Quello che ha reso Pina Bausch unica è la capacità di usare la danza per parlare all’animo umano in modo universale.
Le sue creazioni, spesso prive di una trama lineare, si basano su immagini potentissime: una donna che cammina a occhi chiusi tra sedie volanti, uomini che si tuffano in piscine di fiori, danzatori che si abbracciano e si respingono in un loop emotivo senza fine.
Il palcoscenico per Lei diventa un mondo parallelo, dove le regole del quotidiano si dissolvono e affiorano desideri, paure, ferite.
“Non mi interessa come le persone si muovono, ma cosa le muove”, diceva Bausch. Ogni suo spettacolo è ancora un viaggio nell’inconscio collettivo, dove il corpo è strumento di verità.
Pina Bausch è scomparsa il 30 giugno 2009 a Wuppertal, lasciando un vuoto profondo nel mondo della danza, ma anche un’eredità viva e pulsante. Il Tanztheater Wuppertal continua a portare in scena le sue performance, mentre numerosi coreografi contemporanei si ispirano al suo linguaggio e stile.
Nel 2011, il regista Wim Wenders le ha dedicato il film “Pina”, un omaggio tridimensionale alla sua arte, che ha contribuito a far conoscere il suo lavoro ad un pubblico ancora più vasto.
Pina Bausch non ha solo cambiato la danza: ha cambiato il modo in cui pensiamo il corpo, la memoria e la scena. I suoi spettacoli non si limitano ad essere visti: si vivono. In un mondo sempre più frenetico e disconnesso, il suo teatro danzato resta un invito radicale alla presenza, all’ascolto e alla fragilità condivisa.
Con lei, il teatro danza ha guadagnato l’umanità come sostanza. In un tempo in cui il corpo era spesso subordinato al virtuosismo, Pina lo ha restituito alla verità. La sua arte ha il potere di mettere a disagio, perché rifiuta la maschera, e nel farlo ci costringe a guardarci dentro, senza sconti.
Più che coreografa, era una cartografa dell’anima, tracciava mappe emotive in spazi scenici che diventavano soglie tra il quotidiano e l’invisibile. Chi guarda ancora oggi agli spettacoli di Pina Bausch non assiste ad uno spettacolo: attraversa un’esperienza.
Ecco un elenco dei migliori e più influenti lavori di Pina Bausch, considerati pietre miliari del Tanztheater e fondamentali per comprendere la sua estetica e la sua testimonianza:
“Café Müller” (1978): Uno dei suoi lavori più iconici e autobiografici. Ambientato in un caffè vuoto popolato da figure che si muovono con gesti automatici e disperati, è un capolavoro sulla solitudine, la memoria e l’amore non corrisposto. Pina stessa danzava nel ruolo della donna sonnambula.
“The Rite of Spring” (Le Sacre du Printemps) (1975): La sua rilettura potente e viscerale del capolavoro di Stravinskij, con i danzatori che si muovono su un palcoscenico ricoperto di terra. Una danza primitiva, rituale, sensuale e tragica, che parla della brutalità del sacrificio.
“Kontakthof” (1978): Un’esplorazione delle relazioni umane, del desiderio e della comunicazione, ambientata in una sala da ballo impersonale. Bausch ne creò tre versioni: una con danzatori adulti, una con adolescenti e una con anziani, rendendola una delle sue opere più emblematiche sulla condizione umana.
“Nelken” (1982): Il palcoscenico ricoperto da migliaia di garofani rosa è il simbolo di un’opera poetica e inquieta, dove la bellezza convive con la minaccia. Uno sguardo sull’autorità, il controllo e la vulnerabilità del corpo.
“Vollmond” (2006): Una delle sue ultime grandi creazioni. Un’enorme roccia e una pioggia battente diventano metafore della vitalità, della furia, del desiderio e del caos della vita. È un’opera che mescola comicità, potenza fisica e tenerezza.
“Palermo Palermo”(1990): Parte della sua serie di “ritratti di città”, in cui le suggestioni dei luoghi visitati diventano materia drammaturgica. La scena si apre con il crollo di un muro: metafora della storia e delle contraddizioni della Sicilia.
“Viktor” (1986): Creato a Roma, è un’opera carica di simbolismi, religiosità e immagini archetipiche. Una visione teatrale e surreale che unisce amore, morte, rituali e assurdità con la tipica poetica bauschiana.
“Barbablù” (1977): Carico di tensione, ironia disturbante e poesia nera, rappresenta uno dei lavori più intensi e simbolici del repertorio di Bausch, con una coreografia che unisce parola, gesto, musica e dolore in un linguaggio scenico unico.
Sulla sua continua ricerca artistica e sul rifiuto di formule predefinite Pina Bausch disse: “Cerco sempre qualcosa che non conosco ancora”.
Michele Olivieri
Foto di Wilfried Krüger
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