
Quando si parla di memoria corporea nel campo della danza, spesso si cade nella tentazione di attribuire al danzatore una sorta di misteriosa capacità innata, quasi soprannaturale. In realtà, il fenomeno è ben più concreto e radicato nella fisiologia e nella pratica.
È il risultato di un processo di apprendimento che coinvolge il sistema nervoso, la ripetizione metodica e la consapevolezza propriocettiva.
Per un ballerino, il corpo non è mai solo uno strumento da modellare, ma un archivio dove vengono registrati gesti, sequenze e sensazioni.
Attraverso l’allenamento, i movimenti diventano automatismi spontanei, grazie a connessioni neuronali rafforzate dall’esperienza e dall’attenzione che permette di agire e correggere gli errori in tempo reale.
La memoria fisica infatti si nutre di errori e aggiustamenti, e coinvolge corpo e mente. È dinamica, si ridefinisce costantemente in base alle esigenze coreografiche, all’età e alle condizioni fisiche.
I danzatori imparano a riconoscere segnali corporei anche minimi, a gestire la fatica e a mantenere la concentrazione perfino in condizioni di stress performativo.
Il loro corpo conserva anche le sensazioni tattili, il pavimento sotto i piedi, il ritmo del respiro, le correzioni degli insegnanti e le emozioni provate in scena o durante l’esecuzione della coreografia.
Tale memoria è un patrimonio che si trasmette attraverso le generazioni di ballerini, insegnanti e coreografi ed è il risultato tangibile di studio, applicazione e costanza.
Comprenderla significa riconoscere la complessità del lavoro del danzatore, valorizzando la dimensione metodologica di una disciplina artistica spesso raccontata banalmente in termini di bellezza, poesia e magia.
Questi tre elementi sono solo la punta dell’iceberg. La base è fatta di dedizione, perseveranza, fatica, qualche sacrificio e presenza a se stessi.
Stefania Napoli
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