
Ambleto è un fulmine barocco fuori asse: un’opera che prende Shakespeare, lo smonta con ironia e ne ricompone l’ombra in una parodia intelligente, speculare e sorprendentemente moderna.
La musica di Gasparini vive di contrasti continui – serio e buffo, sublime e grottesco – come se ogni aria fosse una porta che si apre su un’altra intenzione.
Il protagonista, sospeso tra tragedia e farsa nel libretto di Apostolo Zeno e Pietro Pariati, incarna perfettamente questo equilibrio instabile: canta come un eroe, si muove come un antieroe, e in questa ambiguità diventa irresistibile. Attorno a lui, personaggi scolpiti con un tocco di modernismo e vivacità barocca creano un mondo teatrale in cui nulla è mai del tutto sincero, ma nulla è mai solo scherzo.
Gasparini ci accompagna in un gioco raffinato di specchi, dove la musica ride, insinua, allude, ma lascia filtrare una piccola verità emotiva dietro la maschera. Ambleto non è una curiosità d’epoca: è un’opera che ancora oggi vibra di libertà creativa e di un’ironia che non teme di toccare l’umano.
C’è un momento, nel nuovo allestimento di Ambleto andato in scena al Teatro alle Vigne di Lodi per la chiusura del Festival Orfeo Week, in cui parola, gesto e musica smettono di essere tre elementi separati e cominciano a respirare all’unisono. È lì che la regia di Ilaria Lorenzo (la quale ha curato anche i testi) rivela la sua natura più profonda: non un mero accompagnamento visivo, ma una vera e propria coreografia narrativa, capace di trasformare il barocco di Gasparini in un organismo vivo, duttile, sorprendentemente contemporaneo.
Al centro, come asse magnetico della vicenda, Raffaele Pe nel ruolo di Ambleto. La sua presenza scenica non è mai statica: il modo in cui inclina il busto, frena un passo o lascia vibrare un gesto sospeso sembra tradurre in movimento la linea del canto. Il risultato è un personaggio spezzato e fluido insieme, erede del dubbio shakespeariano ma riletto attraverso una gestualità che sfiora la danza butō: lenta, scavata, a tratti ipnotica. Pe offre una lettura vocale raffinata e nel suo corpo la tragedia prende fuoco.
Accanto a lui, l’istrionico e straordinario sopranista Maayan Licht nel ruolo di Laerte brilla per nitidezza vocale e presenza scenica luminosa. Là dove Ambleto è frizione, Licht porta equilibrio: i suoi ingressi sembrano sempre aprire lo spazio, come una linea di movimento diagonale che ricompone la scena. La sua musicalità naturale si intreccia con un lavoro corporeo essenziale ma elegante, quasi un controcanto fisico al tormento del controtenore.
Il plauso è da estendersi inoltre agli personaggi interpretati da Valentina Mastrangelo (Gertrude), Giovanni Accardi (Laerte), David Costa Garcia (Polonio) e ai loro contraltari recitativi Chiara Sarcona, Giulia Valenti, Vincenza Pastore.
Il ruolo de La Lira di Orfeo (maestro concertatore Elisa Citterio) è ancora una volta cruciale. Guidato da un’intenzione sonora ricercata, l’ensemble crea un tessuto musicale che non accompagna semplicemente l’azione: la sospinge, la avvolge, la contraddice, la costringe a reagire. Le frasi strumentali spesso sembrano suggerire ai personaggi il ritmo del loro stesso respiro. Ne nasce una specie di danza implicita, in cui il passo di un violino o il respiro della spinetta determinano la dinamica emotiva della scena.
La regia di Ilaria Lorenzo dimostra una nitida consapevolezza: la scelta di far emergere il grottesco intrinseco al libretto non come colore caricaturale, ma come motore di una fisicità deformata, elastica, in alcuni momenti persino buffa, permette allo spettacolo di oscillare senza perdere mai la tensione. Le traiettorie dei personaggi sul palco seguono curve morbide, diagonali segrete, vortici improvvisi: sono movimenti che ricordano la danza barocca, ma rivisti come echi distorti, ombre che si allungano e si accorciano secondo la logica del sogno.
Il Teatro alle Vigne si rivela cornice ideale per questa lettura andata in scena in prima italiana il 30 novembre 2025: l’acustica intima e la vicinanza tra platea e palcoscenico amplificano la dimensione “corporea” dell’opera. In questa vicinanza, ogni gesto diventa necessario, ogni sguardo pesa, ogni minimo cambio di postura vibra come parte del racconto.
Questo Ambleto non è solo uno spettacolo: è una scrittura scenica in cui la musica di Gasparini danza continuamente, senza mai dichiararlo ma lasciandolo intuire nel dettaglio, nella pausa, nell’inclinazione di un passo.
E quando il sipario cala, resta la sensazione di aver assistito ad una tragedia che non si limita ad essere ascoltata, ma si lascia letteralmente vedere danzare. Un Ambleto vivo, mobile, coraggioso: il barocco che diventa corpo. Un piccolo capolavoro bizzarro, che resta addosso come un sorriso inquieto.
Michele Olivieri
www.giornaledelladanza.com
© Riproduzione riservata
Giornale della Danza La prima testata giornalistica online in Italia di settore