
Il 30 dicembre 2015, davanti al pubblico giapponese, Sylvie Guillem danzò per l’ultima volta.
Non fu una serata d’addio nel senso tradizionale del termine, ma la conclusione naturale di un percorso coerente, lucido, radicalmente libero.
La tournée mondiale Life in Progress si chiuse così, lontano dall’Europa che l’aveva consacrata, in un luogo simbolico per una danzatrice che aveva sempre preferito il dialogo silenzioso con il movimento alle celebrazioni ufficiali.
Con quel gesto finale, Guillem non abbandonava soltanto il palcoscenico: chiudeva un’epoca della danza e ne lasciava aperta un’altra, fatta di domande, possibilità e nuove forme di presenza artistica.
Entrata all’Opéra di Parigi giovanissima, Sylvie Guillem fu nominata étoile a soli diciannove anni da Rudolf Nureyev, che intuì immediatamente la portata rivoluzionaria del suo talento. Ma sarebbe un errore ridurre la sua grandezza alla precocità o alla perfezione tecnica.
Guillem possedeva sì una linea fuori dal comune, un’estensione che sfidava l’anatomia e una forza fisica allora rara nel corpo femminile del balletto classico; tuttavia, ciò che la distingueva davvero era l’intelligenza del movimento.
Fin dall’inizio, rifiutò l’idea della ballerina come figura decorativa o puramente esecutiva.
Ogni ruolo diventava per lei un territorio da esplorare, da mettere in discussione. La tecnica non era mai fine a sé stessa, ma strumento di pensiero.
Il passaggio decisivo avvenne quando Sylvie Guillem lasciò l’Opéra di Parigi per intraprendere una carriera indipendente.
Fu una scelta audace, quasi impensabile all’epoca per un’étoile nel pieno della fama.
Ma Guillem non accettava compromessi: desiderava lavorare con i coreografi più innovativi del suo tempo, da William Forsythe a Mats Ek, da Akram Khan a Russell Maliphant.
In questo attraversamento tra classico e contemporaneo, Guillem divenne un corpo “altro”: non più vincolato a una scuola, a un’estetica o a un repertorio fisso.
La sua danza si fece più essenziale, a tratti spigolosa, sempre necessaria. Ogni gesto sembrava nascere da un’urgenza interna, mai da una convenzione.
Il titolo della tournée di commiato, Life in Progress, riassume perfettamente la filosofia di Sylvie Guillem. Non una retrospettiva nostalgica, ma un progetto vivo, contemporaneo, costruito su coreografie che parlavano di trasformazione, limite, ascolto.
Scegliere il Giappone come luogo dell’ultimo saluto non fu casuale. La cultura giapponese, con il suo rispetto per il tempo, per il gesto minimo e per la sottrazione, rispecchiava profondamente il modo in cui Guillem concepiva la fine: non come perdita, ma come compimento.
Non ci furono proclami, né enfasi eccessiva. Solo un corpo che, ancora una volta, diceva tutto.
Oggi, a distanza di anni, l’eredità di Sylvie Guillem è più evidente che mai.
Non solo nelle danzatrici e nei danzatori che hanno trovato in lei un modello di libertà, ma nel modo stesso in cui la danza viene pensata: come spazio di autonomia artistica, di attraversamento dei generi, di affermazione identitaria.
Guillem ha dimostrato che si può essere rigorosi senza essere rigidi, virtuosi senza essere prevedibili, celebri senza essere prigionieri della propria immagine.
Soprattutto, ha insegnato che saper andare via è un atto creativo quanto saper restare.
Il 30 dicembre 2015 non segnò la fine di Sylvie Guillem, ma l’ultima variazione di una coreografia più ampia: quella di una vita interamente dedicata all’arte del movimento, vissuta con onestà radicale.
Michele Olivieri
Foto di Bill Cooper
www.giornaledelladanza.com
©️ Riproduzione riservata
Giornale della Danza La prima testata giornalistica online in Italia di settore