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Eleganza e rivoluzione: Alexander Sakharoff e Clotilde von Derp

Nel panorama della danza del primo Novecento, pochi nomi evocano la stessa aura di mistero, eleganza e rivoluzione come quelli di Alexander Sakharoff e Clotilde von Derp. Uniti nella vita e nell’arte, furono una delle coppie più originali e influenti nella trasformazione della danza in un linguaggio moderno, astratto e profondamente personale.

A differenza dei contemporanei più noti come Isadora Duncan o Rudolf Laban, Sakharoff e von Derp scelsero una via quasi mistica, fatta di simbolismo, estetismo e una teatralità che rompeva ogni schema tradizionale.

Alexander Sakharoff, nato a Mariupol nel 1886, era un artista poliedrico: pianista, pittore, poi danzatore. La sua formazione musicale influenzò profondamente il suo modo di concepire la danza, intesa non come imitazione del movimento naturale, ma come costruzione formale, come architettura visiva del suono.

Clotilde von Derp, nata a Monaco di Baviera nel 1892, proveniva da una famiglia aristocratica e si avvicinò alla danza seguendo una traiettoria simile a quella della Duncan, ma con una sensibilità più sofisticata e intellettuale. Si formò con i migliori maestri del tempo e presto attirò l’attenzione per la sua bellezza statuaria e la sua presenza scenica ipnotica.

I due si incontrarono nel 1910, durante un evento artistico a Monaco, e fu l’inizio di un’unione destinata a durare tutta la vita. Non solo divennero inseparabili nella scena, ma crearono uno stile coreografico comune, difficilmente distinguibile nei contributi individuali, tanto che molti critici parlavano di loro come di un “unico corpo a due anime”.

La loro danza era radicale, al di fuori di ogni convenzione: Sakharoff si esibiva spesso in costumi femminili, indossando tuniche ispirate all’antichità greca o a culture orientali, sfidando apertamente le norme di genere e i canoni di mascolinità. Il suo corpo, esile e curvilineo, si muoveva con lentezza cerimoniale, in pose che ricordavano le statue antiche o i dipinti preraffaelliti.

Von Derp, al contrario, portava in scena un rigore grafico e un’eleganza algida, spesso esprimendo emozioni attraverso piccoli gesti, angolazioni del viso o delle mani, quasi da marionetta sacra. Insieme, creavano coreografie che sembravano dipinti in movimento, sospesi tra sogno e rito.

Le loro fonti di ispirazione erano eclettiche: la pittura simbolista, la filosofia orientale, il teatro Nō giapponese, l’estetica art déco. Ogni esibizione era un’opera d’arte totale, in cui musica, costumi, scenografia e movimento si fondevano in un’esperienza quasi mistica.

Dopo la Prima Guerra Mondiale, la coppia si esibì in tutta Europa, ottenendo ammirazione soprattutto nei circoli intellettuali. Collaborarono con artisti come Paul Claudel, Fernand Léger, e compositori come Erik Satie. Tuttavia, rimasero sempre marginali rispetto ai grandi centri della danza accademica. Scelsero l’isolamento, preferendo l’insegnamento alla ribalta, e si stabilirono infine a Roma, dove aprirono una scuola di danza.

L’eredità di Sakharoff e von Derp è stata a lungo trascurata, forse per la loro natura elitaria e l’assenza di una vera scuola o movimento posteriore. Eppure, la loro influenza si avverte in ogni coreografo che ha scelto di esplorare la danza come linguaggio interiore, come arte visiva, come performance totale. Il loro lavoro ha anticipato molte delle riflessioni contemporanee sul corpo, sul genere, sull’identità scenica.

Alexander Sakharoff e Clotilde von Derp furono pionieri silenziosi, profeti di una danza che non cerca l’applauso ma la verità, non l’intrattenimento ma la rivelazione. In un mondo artistico spesso dominato dalla tecnica o dalla spettacolarità, la loro opera continua a risplendere come un faro per chi cerca nell’arte del movimento una via spirituale, un atto di resistenza estetica.

Il loro motto non scritto potrebbe essere: La danza come preghiera, il gesto come icona.

Michele Olivieri

www.giornaledelladanza.com

© Riproduzione riservata

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