Ci sono occasioni in cui la danza riesce ad accorciare le distanze culturali di Paesi assai diversi. È proprio ciò che è avvenuto qualche sera fa, il 15 dicembre, al Teatro Auditorium Manzoni di Bologna, in cui si è esibito il Balletto Nazionale della Georgia, in scena con una strabiliante dimostrazione del repertorio coreografico tradizionale.
La cifra registica del direttore artistico Ilja Sukhishvili propone un incipit a sipario aperto con tutta la strumentazione musicale in bella vista, collocando l’Orchestra dell’omonima compagnia sul fondale, tanto per non intralciare lo spazio delle danze quanto per ricreare l’atmosfera folkloristica alla perfezione.
Il pubblico, esteso oltre ogni confine di età e provenienza geografica, freme dalla curiosità di tuffarsi nelle storie georgiane – forse mitiche, sicuramente eccezionali – raccontate dalla gagliarda eleganza degli uomini e dalla flebile raffinatezza delle donne.
La prima danza ne è una piacevole conferma: un passo a due “aristocratico”, dove la velocissima camminata sulle punte – ricorda il pas couru del balletto classico occidentale – sembra far quasi aleggiare i protagonisti, degni rappresentanti del vigore, oserei dire, machista e della sacralità femminea.
Segue un passo a sei solo maschile, dove figure soldatesche dai modi anche un po’ rozzi si cimentano in evoluzioni virtuosistiche che sfiorano l’acrobatica circense, fino a moltiplicarsi per quattro volte ed eseguire con millimetrica precisione una sorta d’addestramento da vero plotone militare.
È il turno delle donne, altrettanto guerriere e coraggiose, manifesto di un affascinante connubio tra la potenza e la grazia, corroborato dall’alternarsi dei gravi tamburi ai dolci scampanellii delle placchette di metallo, cucite sul vestito.
I costumi, curati da Soliko Virsaladze e Nino Sukhishvili, sono sempre ben azzeccati a perpetuare il messaggio comunicato, dipingendo una società multisfaccettata, più “alta” nello sfarzo dei gioielli e dei tessuti pregiati, più “bassa” nelle parrucche scapigliate e i gambaletti di pelo. In ogni caso, comunque, le calzature sono il vero fiore all’occhiello: stivali alti (soprattutto per gli uomini) aderentissimi e leggermente imbottiti in punta, efficaci per realizzare anche le più difficoltose performance e al contempo dimostrare l’eccellente bravura degli interpreti.
Poco prima dell’intervallo, un pas de trois tutto al femminile inneggia alla stimata tradizione pittorica bizantina. Tre regine, dagli abiti scintillanti e un’aura di sacralità impenetrabile, compongono svariate pose rigide e solenni che stimolano emozioni ambivalenti, di timore e di invidia, di venerazione e di pudore. Le luci calde, quasi dorate, rendono le matrone ancor più sfavillanti, conquistando gli spettatori con un’immagine di luce al limite del sovrannaturale.
La seconda tranche di esibizioni è un inarrestabile continuum di salti vertiginosi, piroette da capogiro, manège trottolanti eseguiti sulle ginocchia, per non parlare di agitatissimi tour en l’air terminati al pavimento sulla resistenza dei soli stinchi o del collo del piede. Una fisicità bruta, eccitante, coinvolgente che fomenta gli animi del pubblico in sala, strepitante ad ogni virtuosismo tanto da applaudire con fragorosa acclamazione.
Si susseguono altri spaccati del folklore caucasico: il rito del matrimonio, celebrato da una danza elegante e rispettosa, proprio come dimostrano le maniche dei vestiti, allungate oltremisura per evitare il contatto peccaminoso; la malizia dell’alcova, pregna di mistero e di elementi lussureggianti; la pantomima di un gruppo di gendarmi, votati a manifestare le proprie abilità tecniche senza dimenticare l’ironia e l’entusiasmo.
La conclusione dello spettacolo accoglie una vera e propria aria di festa, a cui sono invitati a partecipare tutti, al di qua e al di là del palcoscenico. La standing ovation è più che meritata e l’augurio di un prossimo ritorno sulle scene italiane pienamente confermato.
Marco Argentina
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Balletto Nazionale della Georgia “Sukhishvili” © Maria Matei
Balletto Nazionale della Georgia “Sukhishvili” © Khaled Zohny