C’è un momento, poco prima che il sipario si apra, in cui il tempo sembra trattenere il fiato. Il pubblico siede in attesa, le luci si abbassano, e tutto tace. Poi, arriva il primo movimento: una figura emerge dal buio, il corpo si fa musica, la musica diventa racconto.
È in quel preciso istante che il balletto classico compie il suo incantesimo — antico, eppure sorprendentemente attuale.
Questa non è solo danza. È una forma di pensiero. Un modo di raccontare il mondo sulle punte, senza bisogno di parole.
Nel cuore del balletto classico c’è un paradosso: appare etereo, ma nasce dal rigore. I danzatori, dietro quella leggerezza quasi soprannaturale, portano sulle spalle anni di fatica, disciplina, errori corretti migliaia di volte. Il corpo si plasma, si adatta, si ribella e infine si arrende alla forma, diventando canale per qualcosa di più grande: il significato.
Il balletto resta fedele al tempo lento. Ripete, affina, ascolta. È una cultura della pazienza, una bellezza conquistata centimetro per centimetro. E questa lentezza — così lontana dalla fretta del nostro quotidiano — è forse la sua forma più potente di resistenza.
Il balletto è una lingua antica e mutevole, scolpita nei corpi e nei silenzi. Non serve traduzione, perché ciò che dice non passa dalla mente, ma attraversa lo sterno, risuona nello stomaco, graffia il cuore. Ogni gesto — una mano tesa, una schiena curva, un salto nel vuoto — porta dentro storie, emozioni, interrogativi. È questo che lo rende universale.
Il balletto — pur nella sua struttura secolare — dimostra giorno per giorno di saper abbracciare il cambiamento senza perdere la propria anima.
In molte città, il balletto entra nelle scuole, nei centri giovanili, nei quartieri periferici. Non solo per insegnare a danzare, ma per insegnare a stare nel mondo.
Perché il balletto educa alla cura, all’ascolto del proprio corpo e di quello altrui, al valore del silenzio e della perseveranza. Insegna che c’è bellezza anche nella fatica, che il fallimento è parte del percorso, che l’arte non è mai lontana: è una possibilità, un rifugio, una forma di libertà.
E nel momento in cui un ragazzo o una ragazza scopre che può raccontare la propria storia senza parole, solo con il corpo, qualcosa cambia. Si apre uno spazio nuovo. E da lì, può nascere tutto.
Ogni volta che si accendono le luci e un danzatore entra in scena, accade qualcosa di raro: un frammento di verità prende forma, e il pubblico — anche solo per un istante — ricorda cosa significa essere pienamente umani.
Non è magia. È cultura, con tutta la forza che solo l’arte sa avere.
Michele Olivieri
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