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La memorabile scena della pazzia in “Giselle”

Nel vasto panorama del balletto romantico, pochi momenti hanno avuto la forza di scolpire nell’immaginario collettivo un’emozione tanto pura e devastante quanto la scena della pazzia in Giselle.

È l’istante in cui la protagonista, fragile e luminosa come un raggio di luna, vede infrangersi la sua illusione d’amore e, con essa, la sua stessa identità. Non è soltanto un passaggio narrativo: è un rito iniziatico, un abisso psicologico e un vertice di arte interpretativa. Inserita alla fine del primo atto, la scena si apre dopo la rivelazione del tradimento di Albrecht.

Il villaggio, prima luogo di festa, diventa una cornice muta che osserva la lenta dissoluzione della giovane. La coreografia — ereditata dalla tradizione ma continuamente reinventata dalle grandi interpreti — abbandona la linearità dei passi accademici per farsi discorso frantumato: salti privati di slancio, gesti ripetuti come interrotti a metà, una postura che scivola dal controllo allo smarrimento.

Giselle non impazzisce semplicemente: disimpara ad essere corpo. Ogni movimento diventa l’eco della vita che le sfugge, come se la danza stessa si spezzasse insieme al suo cuore. Ciò che rende unica questa scena è il suo linguaggio sottile.

Nel teatro romantico l’amore tradito è tema frequente, ma in Giselle non è il pathos melodrammatico a dominare: è la tenerezza che collassa nel vuoto. La protagonista rievoca i passi dell’incontro con Albrecht, li ripete, li distorce. Cerca la sua mano nell’aria, poi la ritrae come se bruciasse.

Il pubblico assiste alla nascita di una follia non rumorosa, ma trasparente: una mente che si sgretola nel tentativo di restare gentile. La partitura di Adolphe Adam accompagna la scena come una lunga confessione. Le sue linee melodiche, prima leggere e pastorali, si incrinano in armonie più scure, quasi sospese. Non c’è esplosione, ma una progressiva evaporazione: la musica sembra dissolvere i confini del tempo, preparando il passaggio al mondo ultraterreno del secondo atto, quello delle Villi.

È come se la follia fosse una porta, e Adam ne fosse il custode silenzioso. Ogni grande ballerina ha inciso con sensibilità propria questo momento: alcune lo hanno reso un delirio di gesti rapidi e lampi di paura, altre lo hanno trasformato in una trance quasi mistica. Ma tutte condividono un tratto fondamentale: la capacità di conciliare la tecnica con la verità emotiva. Nella scena della pazzia non c’è spazio per la mera esecuzione: occorre abbandonarsi mantenendo un filo invisibile di controllo, come una fiamma che vacilla ma non si spegne ancora.

Forse la forza di questo momento nasce dalla sua universalità. Chiunque abbia mai amato, chiunque abbia mai perso qualcosa di prezioso, ritrova in Giselle una parte di sé.

La danza non rappresenta semplicemente la sua pazzia, ma l’esperienza umana dello smarrimento, quel fragile istante in cui ci si sente sospesi tra ciò che era e ciò che non sarà più.

La scena della pazzia in Giselle resta, oggi come ieri, un vertice di poesia teatrale: un frammento di tempo in cui il balletto diventa specchio dell’anima e la follia, paradossalmente, una forma limpida di verità.

Michele Olivieri

Foto di ROH – Bill Cooper

www.giornaledelladanza.com

© Riproduzione riservata

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