
Quando la notizia della morte delle gemelle Kessler ha iniziato a circolare, il mondo dello spettacolo ha avuto la sensazione che si fosse spenta un’intera epoca. Non due artiste, ma un gesto, un ritmo, un modo di stare sul palco che non apparteneva più a nessuno.
Alice ed Ellen se ne sono andate insieme, così come avevano vissuto: sincronizzate, complementari, inseparabili.
La loro storia, prima ancora che fatta di canzoni, lustrini e prime serate, è una storia di danza. Non la danza come ornamento, ma come spina dorsale di un percorso artistico che ha definito la loro identità. Le Kessler non si sono limitate a “battere il tempo”: l’hanno scolpito, gli hanno dato una forma.
Sin da bambine, la danza fu la loro prima lingua. Non imparavano solo passi, imparavano disciplina, equilibrio, ascolto reciproco.
Chiunque abbia provato a muoversi in perfetta simmetria con un’altra persona sa quanto questo richieda fiducia totale. Per le Kessler, la danza era questo: un patto. Un patto che sarebbe durato tutta la vita.
Quando da ragazze attraversarono i confini della Germania per cercare un futuro nel mondo dello spettacolo, non portarono con sé che una valigia e la loro formazione classica.
Ma quella formazione, che per molti sarebbe rimasta un retaggio scolastico, per loro diventò un’impronta indelebile: ogni numero, anche il più leggero, portava con sé un rigore e una precisione che venivano dal balletto.
La loro forza non era solo nella tecnica: era in quella simmetria quasi ipnotica che divenne il loro marchio di fabbrica. Quando si esibivano, non si guardavano mai davvero, ma sembravano “sentirsi” a distanza. Ogni gesto dell’una trovava in tempo reale il suo riflesso nell’altra.
Questa unicità — metà danza classica, metà geometria naturale — conquistò i palcoscenici europei e poi la televisione italiana.
Le Kessler non ballavano per il pubblico: ballavano dentro lo spettacolo, diventandone struttura, architettura, fulcro visivo.
Anche quando la loro carriera le portò verso ruoli più teatrali, più complessi, la danza rimase il filo che le teneva unite non solo artisticamente ma esistenzialmente.
Per loro, il corpo era lo strumento con cui raccontarsi — e questo rimase vero anche quando la giovinezza lasciò spazio alla maturità, e la maturità alla vecchiaia.
Non si ritirarono mai davvero, perché una ballerina che ha fatto della simmetria la propria identità non può “smontare il palco”: lo porta dentro di sé.
La loro morte simultanea — scelta e non subita — è, in un certo senso, l’ultima coreografia. Una decisione che parla di libertà, certo, ma anche di coerenza artistica. Di una vita in cui nessuna delle due avrebbe saputo danzare senza l’altra.
Insieme hanno debuttato, insieme hanno brillato, insieme hanno attraversato epoche e generazioni. E insieme hanno fatto il loro ultimo inchino, chiudendo un sipario che non si riaprirà più.
Di loro rimane un’idea precisa: la danza come forma di gemellarità, e la gemellarità come forma d’arte.
E forse, nel ricordarle, non dovremmo pensare solo alle gambe famose, alle sigle televisive, ai costumi scintillanti. Dovremmo pensare a due bambine che, un giorno, hanno imparato a muoversi all’unisono. E non hanno mai più smesso.
Michele Olivieri
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