Matteo Levaggi non è solo un coreografo, bensì un vero e proprio pioniere della danza. Sin dall’inizio della sua attività coreografica, ha sempre voluto mettersi in gioco e affrontare temi importanti, che toccano la contemporaneità. Un artista a 360 gradi che non smette mai di studiare, impegnarsi e soprattutto rendere danza le sue idee. Levaggi inizia lo studio della danza classica presso la Scuola di Balletto diretta da Liliana Cosi e Marinel Stefansescu. Entra giovanissimo a far parte del Balletto del Teatro di Torino diretto da Loredana Furno, dove prestigiosi coreografi, come Karole Armitage e Luca Veggetti, creano per lui. Nel 1999 viene nominato coreografo stabile del BTT, ruolo che ricopre con forti consensi di pubblico e critica fino al 2014. Nel 2014 sceglie una carriera libera. Crea balletti per il Maggio Danza/Opera di Firenze e Peter Martins lo vuole per il New York Choreographic Institute, progetto associato al New York City Ballet. Nel 2017 è coreografo residente del teatro Massimo di Palermo e coreografo ospite de Les italiens de l’Opèra de Paris. Nel 2018 la nuova creazione Crises debutta al Festival Transart di Bolzano e sancisce dieci anni di collaborazione con l’artista visiva Samantha Stella.
Iniziamo subito parlando del tuo ultimo progetto, L.U.X.: di che cosa si tratta e chi coinvolge?
Il progetto “Lux” è il primo progetto didattico che mi unisce artisticamente all’artista visiva Samanta Sella, incontrata per la prima volta nel 2008 alla Biennale del la Danse de Lyon per Primo toccare White. Nei successivi dieci anni di attività, creano assieme per il Balletto Teatro di Torino, per il Maggio Fiorentino e altre importanti istituzioni, alcuni dei lavori più importanti della mia carriera coreografica. Nel 2018, dopo la presentazione di Crises al Festival Transart di Bolzano, abbiamo deciso di dare vita a Matteo Stella Dance Arts, con la volontà di andare oltre il vocabolario storico della danza e dell’arte visiva ad essa applicata, per creare un’opera d’arte con lo scopo di attingere da ogni linguaggio espressivo possibile. Il debutto è avvenuto nel gennaio 2019 con la performance Death Speaks presentata al Museo Madre di Napoli all’interno del programma performativo correlato alla mostra Robert Mapplethorpe. Choreography for an Exhibition. La progettualità sviluppata insieme in questi dieci anni è maturata nella consapevolezza comune che, in tempi contemporanei, si debba parlare di creazione non in termini di “spettacolo”, ma di “opera d’arte”, e che i singoli ruoli, del coreografo e dell’artista visiva, e quindi del movimento del corpo e dell’apparato estetico in cui il corpo è collocato, sia esso una scenografia, un’installazione, un costume, un video, un’immagine fotografica, una scultura, un’architettura, pur sempre chiaramente definiti, non siano altro che una compenetrazione simbiotica da cui l’idea originale prende forma. L’uno si nutre dell’altro, senza alcuna prevaricazione in termini di importanza, nel comune intento focalizzato nel risultante finale, l’opera stessa. L.U.X, in sostanza, è un metodo di creazione comune dove danza e arte visiva in diverse declinazioni, offrono una nuova prospettiva contemporanea. Il progetto L.U.X. ha debuttato a Padova il 9 e 10 febbraio 2019, in collaborazione con il Corso di Perfezionamento Professionale, progetto per danzatori di PADOVA DANZA, diretto da Gabriella Furlan Malvezzi e riconosciuto dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali – Direzione Generale Spettacolo dal vivo. Il corso, sostenuto dal Mibac, gratuito sia per i danzatori che per gli artisti visivi, era accessibile solo tramite audizione per i danzatori, e su selezione dei materiali di presentazione pervenuti per gli artisti visivi. Quattro gli incontri previsti a cadenza mensile. E, durante l’ultimo incontro è stata messa in scena una creazione finale sviluppata proprio durante il percorso di studi. Gli altri incontri si sono svolti il 2-3 Marzo, 6-7 Aprile, 4-5 Maggio (il 5 Maggio con un open sharing finale). Ogni incontro ha incluso un momento di confronto comune tra danzatori e studenti/artisti visivi in merito al soggetto da approfondire, nell’intento di dare forma ad una messa in scena finale che includesse una coreografia e un involucro/apparato estetico (di qualsiasi linguaggio, installazione – scultura – foto – disegno – pittura – video – costumi), l’approfondimento e la ricerca coreografica per i danzatori, e una parte pratica coordinata da Stella per gli artisti visivi. Ad ogni danzatore è stato richiesto di elaborare una propria interpretazione del soggetto studiato e di confrontarsi con lo studente/artista visivo di riferimento. Lo studente/artista visivo a sua volta ha avuto il compito di creare/assemblare uno o più manufatti/oggetti nel rispetto del soggetto dello studio e in relazione all’azione corporea del danzatore. Insomma: il repertorio ristudiato e rielaborato, in un nuovo concept. Permettimi di dire che mi sento veramente onorato di poter lavorare in un contesto così arricchente ed internazionale: questo è un progetto bellissimo che mi mette vicino a personalità di spessore internazionale.
Parliamo ora della tua carriera: sei un pioniere dell’arte visiva, che unisci alla tua danza. Sei ballerino, coreografo, creatore: ma com’è l’anima di Matteo Levaggi?
Un’anima intesa! Tutto è nato dall’essere, da sempre, un danzatore che già di sua natura non restava nei ranghi. Anche quando entrai in Aterballetto, dopo qualche mese capii subito che stare in una compagnia non sarebbe stata un’opzione per il futuro. Volevo muovermi in un’acqua appartenente a me. Sin dall’inizio della mia attività coreografica, ho sempre cercato di dare un impatto molto forte, cercando di trasmettere messaggi altrettanto forti. Mi sono sempre sentito un creatore borderline, in grado di “pungere” gli spettatori. Al BTT ho avuto la possibilità di creare moltissimo, su carta bianca, senza limiti di temi. Un’esperienza indimenticabile. SEXXX, poi, è stato un momento di rottura con la Compagnia: la pièce è un’autentica istantanea sul contemporaneo e sul corpo del ballerino, sempre alla ricerca di forza fisica, con il rischio di non trasmettere più emozioni. Tre “x” per esprimere il troppo, la superficie, l’ipertrofia dell’oggi e lo sguardo dello spettatore. Ho eliminato generi, ho fatto indossare le punte agli uomini: un gesto di ribellione, sì, ma in senso creativo. Penso che l’arte non debba soltanto intrattenere lo spettatore, bensì fare delle domande. E la danza stessa, poi, deve essere esposta sia fisicamente sia psicologicamente – per parlare al pubblico!
Cosa cerchi nei ballerini che lavorano con te?
Personalità. È un elemento fondamentale. Ho la fortuna di lavorare con danzatori preparati tecnicamente e fisicamente, ma spesso non basta. Il dialogo con un danzatore si basa anche e soprattutto sulla sua volontà di spingersi oltre e sul suo desiderio di lavorare in sala prove e, poi, portare tutto ciò che ha acquisito sul palco. Un dialogo continuo, che non ha staticità. Bisogna mettersi in gioco, mettersi alla prova: per me è fondamentale lavorare con danzatori che hanno queste caratteristiche e capacità.
La danza può inviare messaggi importanti. Lo fai anche tu? E soprattutto: cosa cerchi di trasmettere con le tue coreografie?
Non ha senso non trasmettere messaggi. Raccontare una storia significa anche poterla rielaborare, proprio per mandare – poi – messaggi importanti. Nella mia carriera provo sempre a fare questo. E proprio per questo, ringrazierò sempre il Teatro Massimo di Palermo perché in questo ente lirico ho avuto la possibilità di rivisitare La bella addormentata, un grande titolo del repertorio classico. Non ho assolutamente stravolto la trama, ma ne ho ridisegnato l’estetica e ho introdotto suggestioni disneyane, come il personaggio Fosco, braccio destro di Carabosse. Ci sono degli importanti spunti drammaturgici, come per esempio Aurora, orfana e ribelle, cresciuta dal Paggio di Corte e circondata da personaggi maschili che rappresentano il bene e il male. Una coreografia essenziale, che si immerge nelle note di Čajkovskij. Ma che ha una sua identità.
Poter rielaborare dei grandi classici è bellissimo, una sfida importante perché non significa soltanto cambiarne i passi, ma mettere in evidenza delle sfumature che, magari, prima ad ora nessuno aveva visto. Il lavoro di coreografo è molto importante e ti permette di fare questo: e questo è il mio compito, il mio obiettivo, quando lavoro ad una nuova composizione.
C’è un coreografo – del passato e del presente – con cui ti piacerebbe lavorare?
Due su tutti: George Balanchine e Merce Cunningham! Con altri, invece, ho avuto un bellissimo rapporto, muto, senza parole: solo guardandoci capivamo che avremmo realizzato qualcosa di bello. Non è necessario parlare per coreografare: è fondamentale avere delle sinergie. Ho iniziato a fare il coreografo proprio con questo tipo di apertura, con l’obiettivo di osare, prendere, a volte strappare tutto.
Raccontaci del progetto con Mara Galeazzi e di un sogno che vorresti realizzare…
Insieme a Mara Galeazzi, sto lavorando ad un bellissimo progetto che coinvolge i danzatori italiani che, già in giovane età, hanno preso la decisione – spesso molto sofferta – di andare a lavorare all’estero. Vorremmo poterli riunire non soltanto per dei gala ma anche creare vere opere di danza contemporanea, con progetti di coreografi già affermati e giovani talenti italiani, selezionati per l’occasione. Per me è essenziale poter ampliare il mio lavoro anche a idee di questo tipo. A maggio faremo un’importante audizione in collaborazione con il Russian Ballet College, con la speranza di poter, magari, poter lavorare anche con il Teatro Carlo Felice di Genova. Vorremmo aprire una nuova pagina di danza per ballerini da tutte le parti d’Italia e, nello stesso tempo, poter aiutare Genova, la mia città, che non sta vivendo un periodo facile. Ma anche grazie alla danza, e questo è il mio augurio e desiderio, potrà rialzarsi.
La danza, nel nostro Paese, non gode di una salute perfetta. Secondo te, quale potrebbe essere una buona medicina?
Come prima cosa: capire gli animi e i caratteri delle persone perché ciascuno di noi è diverso. Dovremmo avere la curiosità e il desiderio di accettare – e di iniziare – a dialogare veramente. Trasformare il dialogo da astratto a concreto: questa è la medicina in grado di risolvere molti problemi della danza.
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