
Il sipario si apre su un silenzio che sembra già coreografato. Prologue non è un preludio ma un atto di nascita: il corpo che si prepara, la linea che si definisce e subito si dissolve. Forsythe costruisce il tempo come materia, lo piega, lo sospende. I danzatori della Scala avanzano in una grammatica classica che però non cerca perfezione: è un linguaggio che si incrina, che si lascia contaminare dal dubbio. Gli arabesque si inclinano, gli equilibri diventano vibrazioni, e la musica di James Blake (su base registrata) si infila tra un respiro e l’altro, come un pensiero che non vuole cessare. In questa apertura si percepisce un’urgenza: quella di un nuovo inizio che non rinneghi il passato, ma lo riavvolga, lo osservi da un’altra angolatura. Prologue diventa così un territorio sospeso tra memoria e desiderio, tra gesto e intenzione.
Poi la scena si svuota e resta una sbarra. Semplice, verticale, necessaria. The Barre Project è l’idea della disciplina portata all’essenza. Forsythe la trasforma in una riflessione sull’atto stesso del danzare: il corpo si misura, si sostiene, si spinge oltre i propri limiti. Ogni appoggio diventa interrogazione, ogni rilascio una risposta. Qui la danza non racconta, ma pensa. La musica di Blake pulsa come un sistema nervoso, i ritmi si spezzano, ripartono, si fanno carne. I danzatori si alternano in un dialogo serrato tra controllo e abbandono, come se la sbarra fosse la soglia tra due mondi: quello dell’allenamento e quello dell’arte. È un momento di verità. Nessun orpello, nessuna retorica: solo corpi che cercano di capire chi sono, dentro una forma che cambia. In sala, il pubblico trattiene il fiato: ciò che accade non è spettacolare, è essenziale. E per questo, profondamente umano.
Dopo l’intervallo (personalmente non indispensabile alla continuità del discorso armonico), il sipario si riapre su Blake Works I e l’energia si moltiplica. Ventuno danzatori invadono la scena come un’onda che si genera e si rigenera, travolgente, luminosa. Forsythe orchestra un flusso continuo dove il classico non è più regola, ma impulso: le linee si incrociano, si frantumano, si ritrovano. C’è qualcosa di gioioso, quasi liberatorio, in questo finale. Dopo l’introspezione della sbarra, la danza si apre, si fa corale, piena di respiro. La musica di James Blake – malinconica e pulsante – sostiene un tessuto coreografico che si costruisce come architettura dinamica: geometrie che esplodono, simmetrie che si disgregano, ritmi che si inseguono. I danzatori della Scala rispondono con sorprendente elasticità: la loro precisione classica diventa strumento di libertà. Il gesto si fa linguaggio contemporaneo senza perdere eleganza, e Forsythe sembra dirci che la tradizione è viva solo quando accetta di cambiare pelle.
La Serata William Forsythe al Piermarini è più di una successione di balletti: è un discorso sul tempo. Un tempo che non si consuma, ma si rinnova attraverso il corpo. Si attraversa una parabola: dall’attesa alla riflessione, dalla riflessione all’espansione. È come assistere alla nascita, alla consapevolezza e poi alla celebrazione di un linguaggio. Forsythe non insegna più “come” danzare, ma “perché” danzare. E il Corpo di Ballo della Scala diretto con autorevolezza da Frédéric Olivieri accoglie la sfida con una dedizione che commuove: interpreti capaci di ascoltare, di rischiare, di rendere ogni passo un atto di pensiero. Quando le luci si spengono, resta un silenzio vivo. Non è il silenzio del dopo, ma quello di chi sente di aver visto qualcosa che non finisce con l’applauso: la danza come idea, come respiro, come atto necessario.
La rappresentazione, alla prima di martedì 11 novembre, è un trionfo di energia, precisione e sensibilità. Gli interpreti dimostrano una straordinaria padronanza del linguaggio contemporaneo di Forsythe, unendo la purezza della tecnica classica ad una musicalità moderna e vibrante. In Prologue e The Barre Project, la loro presenza scenica è magnetica: i movimenti, asciutti e taglienti, respirano con la musica di James Blake, rivelando un perfetto controllo del corpo e un’intelligenza coreutica rara. Il musicista britannico combina strutture minimaliste, armonie complesse e campionamenti manipolati con assoluta precisione, sfruttando il silenzio e la spazialità del suono, creando tensione e intimità. In Blake Works I, la compagnia si lascia invece travolgere da un’onda di emozione e dinamismo, alternando momenti di raffinata leggerezza a esplosioni di virtuosismo collettivo.
Svetta la presenza di Domenico Di Cristo, l’ideale compasso nelle mani del coreografo statunitense. Nell’insieme, tutti i danzatori scaligeri in scena (Losa, Valentini, Turnbull, Cooper, Mascia, Ponce, Manni, Cerulli, Giubelli, Agostino, Fagetti, Starace, Arduino, Mariani, Montefiore, Andrijashenko, Crescenzi, Lepera, Paoloni) non solo eseguono Forsythe, ma ne incarnano lo spirito innovativo: tecnicamente impeccabili, ma soprattutto vivi, intensi e pienamente consapevoli del proprio ruolo di protagonisti di una danza che sa essere classica e contemporanea al tempo stesso.
L’esibizione si è conclusa tra applausi lunghi e calorosi, pienamente meritati.
Michele Olivieri
Foto di Brescia e Amisano © Teatro alla Scala
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