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Tiziana Lauri: “Noi tutti dobbiamo imparare a corporizzare lo spirito e a spiritualizzare il corpo”

Un pomeriggio d’estate, il Teatro dell’Opera di Roma e le sue sale, ricche di profumi, ricordi e soprattutto di essenza della danza dei grandi, che anni fa studiavano, si allenavano proprio tra queste mura, per portare in scena la danza di qualità, quella che oggi non, purtroppo, non si vede né assapora qui. È qui che incontro Tiziana Lauri, ballerina dalle doti straordinarie, sul palco ma principalmente fuori dal palco: con la sua innata sensibilità e dolcezza, mi accoglie all’Opera, a casa “sua”, per parlarmi della sua vita, del suo desiderio immenso di ballare, inizialmente contrastato dai genitori ma soprattutto per farmi “vivere”, seppur per un pomeriggio, le magie nascoste di uno dei teatri più magici del nostro paese.

Raccontaci la tua storia!

Artisticamente parlando, potrei condividere con te tante di quelle esperienze! Diciamo pure che non mi sono proprio fatta mancare nulla, di bello e di meno bello (visto che nel mondo del teatro abbondano luci ed ombre) e ti assicuro che è grazie alla somma delle conoscenze conseguite che oggi sono quella roccia che sono. Ti potrei raccontare degli innumerevoli e vivacissimi spettacoli degli anni d’oro del Teatro dell’Opera o sull’immenso palcoscenico delle Terme di Caracalla di qualche anno fa, o dei coloriti episodi a volte terribilmente surreali che ad essi facevano da sfondo. Ti direi dei tanti maestri che ho avuto l’onore di conoscere in un percorso internazionale, a partire da Raymond Franchetti e José Férran a Cannes per arrivare ad Erik Bruhn e Yvette Chauviré a Parigi, passando per Londra con i russi Messerer e Plissetsky fino a Yuri Grigorovich o Natalia Makarova proprio nelle sale dell’Opera di Roma. E accennerei a divertenti trascorsi nei teatri di Amburgo (Neumeier) e Zurigo (Scholz), così come alle tenerezze del ruolo di Giulietta, che ho molto amato, e alla gioia che mi travolgeva tutte le volte che mi scatenavo nel Tchaikosvsky pas de deux di Balanchine o nel Raymonda divertissements di Petipa. Oppure ti confiderei quella dolcezza indimenticabile che ho ricevuto solo qualche tempo fa dai bambini coinvolti nell’allestimento de La Sylphide, quando me li sono ritrovati tutti intorno – entusiasti, a chiusura di sipario – a complimentarsi con la sottoscritta trasformata in vecchia Strega Madge.

Hai studiato tanto, hai ballato con i grandissimi, che noi tutti rimpiangiamo… Ma quando hai iniziato?

Sono figlia d’arte, infatti mio papà è Guido Lauri, già primo ballerino étoile dell’Opera di Roma e mamma, Anna Maria Paganini, è anch’essa stata danzatrice in quel teatro per tanti anni. Per non parlare poi del celeberrimo cantante lirico basso Giulio Neri…mio zio!!! E se poi vogliamo proprio ridere, devo aggiungere la lista di ben tre zie ballerine classiche, uno zio danzatore, uno poeta ed il super atleta Eliseo Paganini. Ehi, non vi dimenticate i miei quattro cugini Paganini! I miei genitori, malgrado ciò, non volevano affatto che studiassi danza, tant’è vero che ricordo ancora, con molta tenerezza, un’espressione che a casa mi si diceva sempre: “Se vuoi ti porto a casa un pezzo di luna, ma non fare la ballerina: è un lavoro difficilissimo!”. Io, però, caparbia com’ero, giunti i tredici anni pensai di presentarmi da sola alle selezioni per la Scuola di Ballo di via Ozieri. Era l’ultima occasione di cui approfittare poiché per il successivo bando di concorso si sarebbero dovute attendere ben due stagioni teatrali ed io avevo già raggiunto il massimo limite d’età consentito. Giunta quindi ai provini in Teatro all’insaputa dei miei, incontrai Attilia Radice (allora direttrice della Scuola e per di più partner prediletta proprio di mio papà) la quale, non avendomi mai vista in precedenza, chiese le generalità familiari. Fu allora che, comunicatole il mio cognome, la signora – sorpresa e quasi divertita – fece subito chiamare mio padre, che in quel momento si trovava al lavoro nella sala ballo del piano di sopra. Lui mi vide e come da copione esclamò la prevedibile frase: “A casa facciamo i conti!”. Sorpassato il primo ostacolo del percorso e finalmente accettata tra le allieve della Scuola, ad anno scolastico appena iniziato, la signora Radice decise di richiedere un appuntamento con i miei genitori per il giorno seguente, senza naturalmente anticiparmi alcuna spiegazione. All’indomani di una notte da incubo (in cui piansi tutto il tempo, pensando che mi avrebbero cacciata perché non abbastanza brava) scoprii il motivo della convocazione: per il volere inappellabile ed il grande entusiasmo della direttrice stessa, ero stata inserita direttamente al 5° corso. Insomma avrò completato in totale circa un anno e mezzo di scuola, senza alcuna preparazione precedente, e davvero si può dire che io abbia bruciato le tappe: magari non conoscevo i nomi codificati dei passi  ma tutto mi riusciva molto naturalmente. La mia amica e poi collega Paola Belli loda tuttora le gambe altissime e l’elevazione del salto, qualità già evidenti ai più ma di cui io al tempo a stento avevo coscienza… Però ricordo che la mia schiena veniva apprezzata per la medesima morbidezza ed espressività che era tanto stata applaudita nella danza della mia mamma. Ho danzato La Bayadère al Passo d’Addio sul palcoscenico del Costanzi , insieme a mio cugino Raffaele Paganini, per entrare subito dopo nella compagnia dell’Opera diretta da André Prokovsky. Subito dopo, a 18 anni, ero danzatrice solista.

Ultimamente si tende quasi ad abusare della parola “talento”: che ne pensi?

Purtroppo sì. Bisogna ricordare che non tutti ce l’hanno, questo deve essere chiaro. Si possono avere miliardi di doti tecniche ma, se non hai il talento, è come se non avessi nulla, proprio in quanto il   palcoscenico è una lente d’ingrandimento sia per i difetti che per le qualità. Ed è proprio lì che casca l’asino: in scena, se un danzatore è ricco di talento, può dare le spalle alla platea e farla crollare per l’emozione. Lo spettatore deve avere uno shock emozionale, l’arte deve riuscire a dare un input, una crescita a chi la ammira, altrimenti tutto è fine a se stesso e le movenze coreografiche  appaiono prive di significato. Il talento ti permette di dire qualcosa di “altro” e non semplicemente di eseguire dei passi. Infatti la danza non è bieco arrivismo: è ovvio che per cantare devi avere la voce e che per danzare occorrono qualità peculiari, ma irrinunciabilmente supportate dalla speciale dote del carisma, altrimenti diventa tutto di una noia mortale! Quando studiavo in Francia con Rosella Hightower, per esempio, non ero mai stanca: al termine di una giornata in genere composta da non meno di sette lezioni differenti, sai che facevo? Andavo in biblioteca a studiare oppure a vedere spettacoli di Roland Petit. Credo che, data la mole di materiale culturale e artistico assimilato, non dovrò lavorare per quattro vite future! La cosa bella? Più facevo, più mi sentivo nutrita. Era un fattore energetico immenso. Sopra ogni cosa, inoltre, ho frequentato artisti autentici, ho lavorato e ballato con loro, ed in scena poteva accadere che alcuni movimenti imprevisti, nati da un’immediata sintonia d’istinti, fossero magari diversi da quelli eseguiti e pazientemente raffinati in prova, ma alla fine il risultato riusciva a confermarsi sempre stupefacente. Insomma, la freddezza del movimento non dà nulla. Deve esserci molto, molto di più: è l’anima che si esprime.

Hai qualche particolare da raccontarci sul grandissimo Nureyev?

Tra i tanti, ne ho uno bellissimo: stavo provando Don Quixote, la variazione di Kitri con le nacchere. Lui prese la chitarra e si mise a suonare, accompagnandomi con quell’entusiasmo che solo lui ti poteva dare. Durante il passo a due, mi disse “Tiziana, non ti si possono non spalancare le braccia: tu puoi viaggiare anche senza passaporto”. Nureyev è stato spesso etichettato come volubile, vulnerabile e strano ma con me è stato sempre di una dolcezza eccezionale. Capiva i miei punti di forza. Talenti come il suo erano boccate d’ossigeno. Ho tantissimi particolari anche su altre stelle (da Fernando Bujones, che mi strappava l’anima, agli impeti di Maximiliano Guerra e di Patrick Dupond; dall’istintività impareggiabile di Maja Plissitskaya alle soavità di Natalia Bessmertonova e di Dominique Khalfouni) ma posso dirti che il linguaggio di ognuno di loro è sempre lo stesso: il talento che si esprime attraverso la danza non si spiega né si insegna, esso si manifesta unicamente attraverso l’essenza tangibile della metafisicità della danza. Non lo puoi spiegare: lo devi vivere per farlo vivere!

Valentina Clemente

Foto di Buonuomo e Torres

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