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Il regista Wenders omaggia Pina Bausch con il film ‘Pina 3D’

“Da film sulla Bausch a film per la Bausch”. Wim Wenders trasforma il suo ‘Pina 3D’, evento speciale del Festival Internazionale del Film di Roma. Il 3D sembra una sfida alla quale i grandi del cinema non intendono rinunciare.

Ora ci prova Wenders con il suo”Con il 3D finalmente anche le immagini raggiungono lo stesso livello di progresso degli altri elementi filmici: non è una fase passeggera, ma una nuova forma di linguaggio che diventa nuova forma espressiva. E di questo sono contento”, afferma Wenders, che ha una grande fiducia nel progresso tecnologico.

E qui dimostra che il 3D apre le porte a nuove possibilità espressive, non solo nell’animazione: ”Solo quando ho avuto la possibilità di incorporare la dimensione dello spazio, ho potuto tentare di rappresentare il teatro-danza di Pina. Lei mi spingeva molto a portarlo avanti, ma io temevo di non sapere come realizzare il film, finché non ho scoperto il 3D”, sostiene il regista tedesco. Anche se questo ha comportato un film senza protagonista, venuta a mancare poco prima dell’inizio delle riprese.

Un vuoto affettivo incolmabile per Wenders, ”è il coraggio dei ballerini del Tanztheater a spingermi a continuare: si è trasformato da un film su Pina Bausch a un film per Pina Bausch”. Ma l’attesa si è rivelata efficace: ”La danza e il 3D sono fatti l’una per l’altro”. ultimo film con cui porta sullo schermo la danza del Tanztheater Wuppertal di Pina Bausch.

Anche se in leggero ritardo, non potevamo certo glissare così impunemente su uno dei film al contempo più particolari e più attesi della stagione dai cinefili duri e puri. Pina 3D rappresenta uno di quei progetti che, per sua natura, tende a rompere degli schemi ampiamente consolidati. Lo si può ascrivere al genere del musical, forse a quello del documentario. Ma qualunque etichetta si voglia affibbiargli, in più occasioni quest’ultima fatica di Wim Wenders tende a sfuggirle, liberandosi da quelle che non può far altro che avvertire come catene.

L’incipit è presto detto. Per anni il regista ha coltivato una profonda amicizia con colei che viene definita una delle maggiori coreografe moderne, ossia Pina Bausch, venuta a mancare nel 2009. Anch’ella tedesca, la Bausch è riuscita a ritagliarsi un spazio di rilievo internazionale grazie ad un carattere distintivo pressoché unico, riscontrabile anche da parte di chi, come chi vi scrive, con la danza moderna ha davvero poca familiarità.

Questa è una chiave di lettura. A priori, uno dei potenziali scogli sarebbe potuto essere rappresentato proprio da questa mancata confidenza con la materia, elemento ben presente all’interno dell’opera, seppur utilizzato come mezzo per veicolare un messaggio, quindi non messaggio stesso. L’inno, se intendiamo necessariamente ricorrere a tale termine, non è alla danza in sé, bensì alla donna Pina, o meglio all’artista. La stessa che ha segnato in maniera evidentemente tangibile le esistenze delle persone di cui si è circondata.

Non a caso, l’abbondante ora e mezza per cui si protrae la pellicola, è sostanzialmente un insieme di testimonianze raccolte da Wenders. Testimonianze da parte di coloro che hanno praticamente vissuto a stretto contatto con la Bausch, vivendo intensamente un rapporto spesso sfuggente e mai troppo loquace con la loro maestra. Non sapremmo dire se l’appellativo di maestra trovi d’accordo Wenders e tutti coloro che sono apparsi nel film, ma non si può negare così nettamente questa tiepida subordinazione a seguito della visione.

Peraltro Pina segue un registro piuttosto descrittivo, lasciando molto spazio alle immagini e poche alle parole. Ed è forse questo il passaggio che ci coglie maggiormente impreparati, tutti, indistintamente. Il lavoro di Wenders è un’opera molto intima, sensibilmente sentita. Le premesse ce lo dicono, senza fare uso di mezzi termini. La danza, così per come la intendeva la celebre coreografa tedesca, non è un insieme di regole. La danza è reale nella misura in cui viene praticata in maniera “genuina”, senza doverla confinare negli angusti spazi di tutta una serie di schemi e quant’altro faccia di essa una disciplina, per così dire, codificata.

E’ un linguaggio, ma ben diverso dalla parola. E’ noto pressoché a chiunque quale sia il mezzo attraverso cui si esplica tale linguaggio, ossia il corpo. Tuttavia l’accento non viene posto sulle movenze in senso stretto, non se slegate da quanto realmente intende far filtrare colui/colei che se ne fa portavoce. Non è la tecnica ciò di cui necessita la danza per la Bausch, bensì una totale apertura al movimento, inteso come via privilegiata al fine di far filtrare il proprio stato d’animo.

Difatti, come apprendiamo molto presto, Pina era una donna piuttosto taciturna. Parlava poco ma, a dire di coloro che la seguivano assiduamente, le sue parole erano come macigni. In lei si scorgeva una mestizia che non necessitava di parole per essere scorta. Ciò che sentiva lo esprimeva attraverso la sua danza, e quella di nessun altro. Così hanno appreso i suoi “discepoli” (sempre per tornare al rapporto gerarchico accennato in apertura), ai quali è stato insegnato solo di donarsi al movimento, lasciarsi trascinare dalle proprie emozioni.

Poteva forse fare la parte dell’estraneo nel cinema, un film che fa del movimento il proprio leit motiv? Evidentemente no, specie alla luce della maestria con cui viene condotto da Wenders. A più riprese il regista tedesco ha spiegato quanto per lui fosse essenziale disporre di una tecnologia adatta allo scopo. Dopodiché immergervi questa figura ambigua, mai abbastanza chiara, come quella della Bausch. Da qui il ricorso al 3D, a nostro parere una delle componenti più riuscite nell’ambito di questo progetto.

E badate bene, non si tratta di un 3D teso a sconvolgere la vista a suon di effetti speciali. Così come le premesse, anche questo strumento deve piegarsi ad un tipo di immedesimazione diverso, che è più una chiave d’accesso a un mondo fatto di suoni, immagini ed emozioni. Ci pare di poter dire che Wenders avesse ragione quando cercava di far capire come e perché necessitasse di un escamotage del genere. La sua storia, che è quella della sua vecchia amica, è una storia fuori dal comune, e che andava quindi raccontata mediante mezzi tecnici inusuali. Ed il 3D, per quanto se ne sia abusato nell’ultimo periodo, rappresenta ad oggi un territorio ancora inesplorato, sui cui esiti e sul cui reale utilizzo la questione è ampiamente aperta.

In tal senso l’apporto di Wenders risulta encomiabile, denso com’è di significati che esulano il semplice colpo d’occhio. Il suo è un 3D che va gustato, assimilato e poi metabolizzato. Non mette affatto la parola fine alla disputa, anzi, pone ulteriori quesiti a cui forse prima non si aveva nemmeno pensato. Questo, assieme ad una direzione artistica notevole, fanno di Pina un gioiellino visivo non da poco. Qualcosa di gran lunga meno impenetrabile della figura della sua protagonista, le cui apparizioni nel film, peraltro, si contano sul palmo di una mano.

Proprio alla luce di questo passaggio, come abbiamo già accennato, emergono alcune perplessità. Se, da un lato, si voleva mettere in evidenza l’enigmatica figura della coreografa, dall’altro Wenders rema, per così dire, contro sé stesso nel mostrarcela. Il suo è un lavoro che aspira incessantemente alla discrezione, quasi a voler preservare in maniera oseremmo dire ossessiva la protagonista. A questo alludevamo quando abbiamo parlato di un’opera piuttosto intima. Il regista sembra volerci svelare qualcosa, ma non senza curarsi di proteggerla, evitando di esporla oltremodo. Probabilmente era un’implicita volontà della stessa Bausch, che visse abbastanza da essere ampiamente al corrente di questo progetto da parte del suo amico.

Ecco perché Pina, che doveva inizialmente essere un film con la Bausch, è divenuto un film sulla Bausch. Dinanzi a questa non indifferente variazione, senz’altro opportuna, probabilmente ci si è trovati un po’ spaesati. Non è una critica che va percepita per forza negativamente. Wenders ha sofferto non poco per la scomparsa della sua amica di vecchia data, alla quale era davvero affezionato. Questo suo marcato coinvolgimento ha dovuto confrontarsi con il rispetto che portava nei riguardi della protagonista. Ciò ha contribuito a permeare la pellicola di un’aura di mistero quasi inaccessibile, che molti potrebbero non trovare stimolante. E mentre il 3D ci avvicina, il guscio dentro cui è sigillata la vera Pina Bausch ci respinge. In quest’alternanza di dolce e amaro (stabilite voi quale sia il dolce e quale l’amaro), restiamo comunque catturati. Come se scorgessimo un bagliore oltre un roveto di spine, e tale fosse il suo richiamo che correremmo quasi volentieri il rischio di rimanervi impigliati.

Sara Zuccari

Direttore www.giornaledelladanza.com

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