Gil Roman è una persona timida, ma dal cuore grande. Quando parla degli anni trascorsi a contatto con il Maestro Maurice Béjart si emoziona, talvolta non trova le parole giuste per descrivere al meglio uno dei geni della danza degli ultimi tempi. Ed è assai comprensibile: per Béjart non ci saranno mai abbastanza parole, per lui ha continuerà a parlare la sua danza e le pièce che ha creato per i suoi danzatori. Roman, in Italia con la sua compagnia, il Béjart Ballet Lausanne, si racconta in esclusiva al Giornale della danza. Sa di aver ballato tantissimo ma ora è conscio del ruolo che ha: trasmettere tutti gli insegnamenti di Maurice, talento e genio, che lui stesso ha avuto modo di apprendere.
Gil Romain debutta nella danza all’età di sette anni a Montpellier per poi iscriversi all’Accademia Princesse Grâce di Monte-Carlo (dir. Marika Besobrasova). Al Centre International de Cannes approfondisce la sua formazione di ballerino insieme a grandi insegnanti quali Rosella Hightower e José Ferran.Entrato nel Ballet du XXème Siècle nel 1979, participa a tutte le creazioni di Maurice Béjart e interpreta il ruolo principale in Messe pour le temps futur. È protagonista anche in Mephisto-Waltz, Le Concours, Malraux, Piaf e soprattutto in Dibouk, nel ruolo di Hanan creato per lui.Nel 1992, sotto la direzione di Maurice Béjart, gira un film, Paradoxe sur le comédien in cui interpreta il ruolo di Mr. A. Il suo talento di ballerino e di interprete emerge anche grazie a numerosi altri balletti, quali Hamlet, Pyramide, Ring um den Ring, Mr. C…, Il Mandarino meraviglioso, À propos de Shéhérazade, Le Presbytère… !, Barocco-Bel Canto, Mutationx, Lo schiaccianoci, La route de la soie, Le manteau, La lumière des eaux, Lumière, La mort du tambour, Renard e Il flauto magico. Per lui Béjart crea i pas de deux Juan Y Teresa con Marie-Claude Pietragalla e Dialogue de l’ombre double con Christine Blanc. Dopo la creazione di L’habit ne fait pas le moine e Réflexion sur Béla, firma con successo un’importante coreografia intitolata Echographie d’une baleinein omaggio a Federico Fellini. In occasione del Galà per i 50 anni della Compagnia di Maurice Béjart, crea la sua ultima coreografia: Le casino des ésprits. Nel dicembre 2004 Maurice Béjart gli dedica una serata intitolata Six personnages en quête d’un danseur, in cui mette in scena sei ruoli che hanno segnato la carriera del suo principale interprete negli ultimi 25 anni. Nel 2005 riceve in Italia il Premio “Danza & Danza” per la sua interpretazione di Jacques Brel nel balletto Brel et Barbara. Per la creazione Zarathoustra, le chant de la danse, gli viene affidato il ruolo di Nietzsche confidando ancora una volta nelle sue qualità di attore e ballerino. Maurice Béjart gli affida il ruolo principale della sua ultima creazione La vie du danseur, racontée par Zig et Puce. Nel 2006 vince il prestigioso Premio “Nijinskij” del Monaco Dance Forum per coronare 25 anni di danza ininterrotta. Nel 1993 Gil Roman è direttore aggiunto del Béjart Ballet Lausanne e nel 2007 Maurice Béjart lo designa suo successore alla direzione della sua compagnia.
Gli spettacoli che la compagnia mette in scena sono bellissimi e interpretano al meglio lo spirito di Béjart. Quando crea, riformula i balletti, cosa cerca di trasmettere ai suoi danzatori?
La passione e la difficoltà. Mi spiego meglio: credo che le cose non difficili non siano abbastanza interessanti. Ecco cosa devono comprendere i danzatori: le pièce impegnative sono fondamentali per la crescita artistica e personale, proprio perché ti mettono a nudo, talvolta esaltando anche le debolezze di ciascuno di noi. Potersi liberare di tutto questo, mettendo la propria personalità di artista su un palco è un’esperienza meravigliosa.
La sua compagnia è formata da danzatori di tutto il mondo che, a Losanna, studiano sperimentano giornalmente la “tecnica Béjart”.
Ebbene sì: danzatori da moltissimi paesi ma tutti con tantissima voglia di mettersi in gioco e studiare. Il gruppo è forte ed entusiasta. È bello lavorare ed essere giornalmente a contatto con loro. Ciò che mi piace del ruolo che svolgo è poter osservare la maturazione artistica che ciascuno raggiunge dopo alcuni anni in compagnia. Il ballerino non arriva pronto per salire sul palco e andare in scena: deve formarsi, lo devo guidare, capire quale preparazione è la migliore. Tutti fremono per ballare ma prima è fondamentale una giusta preparazione. Su questo non transigo.
Gli spettacoli che ha portato al Teatro Ristori parlano anche di Italia: ha appositamente creato “Ciao Nino” per il nostro paese e, piccola curiosità, “Le manteau” è danzato proprio da un ballerino italiano.
Ho ritenuto a dir poco doveroso omaggiare Nino Rota, un carissimo amico di Maurice. Hanno spesso trascorso le vacanze insieme a Capi, erano molto amici, si confrontavano su melodie e movenze…un connubio fatale! Un breve balletto per una grandissima personalità artistica che non tutti hanno avuto modo di apprezzare. “Le manteau” è una pièce a cui sono legatissimo: l’ho danzata anch’io e ho cercato un ballerino analogo che potesse interpretare al meglio il ruolo. Marco Merenda è un giovane italiano che ha la fisicità giusta per tutto questo e sono felice che ogni sera, quando sale sul palco, riesca sempre a dare il suo meglio.
Come riesce a trasmettere lo spirito di Maurice Béjart?
Dare vita a qualcosa vuol dire amarla. Occorre innanzi tutto amare profondamente l’opera, capirla, e soltanto allora trasmetterla alle nuove generazioni, che la recepiranno secondo lo spirito del loro tempo. Tutto ha un senso. Se lo si trasmette alle nuove generazioni, queste possono appoggiarsi su quel testo solido costituito dalla coreografia e disporranno di elementi sufficienti per reinventarla. Affinché una coreografia sia trasmessa alle generazioni successive, deve essere reinventata, non trasformata. Io ho avuto una fortuna immensa nella mia carriera di ballerino: ho amato e sono stato amato, dalla danza e dalle persone. È questo che mi ha reso libero di continuare il percorso di coreografo e di dialogare con chi danza dopo di me.
Che tipo di eredità ha, invece, lasciato Maurice Béjart ai ballerini del futuro?
La danza, per me, è costituita da due aspetti. È una ricerca interiore per poter evolvere, scoprirsi attraverso i ruoli, attraverso le cose. Un vero e proprio percorso iniziatico personale. Questo aspetto è molto importante nell’ottica di Maurice. La danza deve essere generosa: quando si fa uno spettacolo lo si fa per avvicinarsi alle persone, per avere uno scambio con loro, non per metterle a distanza. Nelle sue opere, Maurice ha sempre voluto dare al pubblico dei punti di vista perché questo potesse partecipare e costruire uno spettacolo che gli appartenesse. I suoi ballerini dovevano lavorare interiorizzando le cose in rapporto a sé stessi, alla loro vita.
Come si fa a trasformare la danza in qualcosa di magico?
È molto difficile spiegarlo a parole. La magia dipende dall’interiorità delle persone e dal legame che esse hanno con qualcosa che le trascende.
Qual è la lezione più importante che ha imparato da Maurice Béjart?
Quello che era molto importante per Maurice è fare il proprio mestiere. Parlando di sé, diceva “il mio modesto mestiere”. Non gli piaceva sentirsi dire che era un artista, non gli piaceva che si parlasse di lui come di un “creatore”. Non si considerava un artista ma un artigiano.
Quali consigli darebbe ad un giovane ballerino?
Nella vita, se si desidera qualcosa, la si ottiene. È una questione di volontà. Se si è appassionati di danza, si diventa ballerini. Non ho particolari consigli da dare, perché ognuno percorre la propria strada con le sue difficoltà, ma se un ballerino vuole ballare, ballerà, niente potrà impedirglielo. Un giorno sono andato a seguire una lezione, e mi hanno detto: “Hai talento”. Mi sembrava tutto così facile… ho continuato questo mestiere, ma è per questo che da quel momento in poi non ci sono state più difficoltà. Ogni difficoltà viene accettata dall’inizio, fa parte del piacere del lavoro. La danza è come qualsiasi altra attività: se si ama il proprio lavoro, lo si fa bene, si evolve costantemente. È il piacere la cosa più importante.
Lei ha un motto che segue?
Il motto di Maurice era “Marcia o crepa”. A me piace la frase di Nietzsche “Si diventa ciò che si è”, che Maurice usava spesso e che spiega bene il cammino da percorrere, ciò che i ballerini devono fare. Scoprire sé stessi, disfarsi delle sovrastrutture e cercare di mettersi a nudo.
Tra i suoi prossimi progetti, oltre a nuovi spettacoli, c’è la possibilità di rivederla sul palco?
Mi concentro soltanto sulle coreografie…ho già danzato molto nella mia vita: ora è tempo di fare spazio ai giovani di talento!
Valentina Clemente