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Alessia Gatta: “La danza è una forma di ascolto, di espressione e di resistenza”

Alessia-Gatta

Alessia Gatta si afferma nel panorama della danza contemporanea per una ricerca coreografica rigorosa ed evocativa, capace di indagare in profondità le dinamiche emotive e fisiche dell’essere umano attraverso il movimento. La sua pratica artistica si distingue per l’esplorazione sensibile e stratificata delle dimensioni più intime dell’esistenza, mettendo in relazione corpo e mente, vulnerabilità e forza, in un linguaggio coreutico ricco, articolato e intensamente espressivo. La sua recente creazione, Balance, presentata all’interno del progetto “The Gate – Get The Floor” al Festival Nutida 2025, rappresenta un esempio emblematico della sua capacità di tradurre in gesto e movimento tematiche complesse come la dualità, la resilienza e la trasformazione interiore. L’opera si configura come un viaggio fisico ed emotivo, condotto con sensibilità e rigore, che restituisce attraverso il corpo in azione le molteplici sfaccettature dell’esperienza umana. La danza di Alessia Gatta si rivela così un potente strumento di comunicazione e metamorfosi: un linguaggio universale e coinvolgente in grado di svelare con intensità le profondità dell’animo umano.

Può raccontarci quali sono stati i momenti chiave e le scelte più decisive nel suo percorso artistico?

Nel 2005 ho ricevuto il premio alla composizione coreografica alla Settimana Internazionale di Spoleto, un riconoscimento che ha rappresentato un momento fondamentale nella mia crescita artistica. In quel periodo, la danza contemporanea era per me soprattutto un territorio da esplorare, fatto di intuizioni, emozioni grezze e prime strutture coreografiche. Quel premio non solo ha validato una ricerca ancora in formazione, ma ha anche acceso un senso di responsabilità e di urgenza: continuare a cercare un linguaggio autentico, che partisse da me, ma che potesse risuonare anche oltre me. Nel 2008, il Premio Léonide Massine, conferitomi da Alberto Testa, ha segnato un importante salto in termini di visibilità e riconoscimento nel panorama della danza contemporanea. Ma soprattutto ha aperto un terreno di confronto e dialogo con una comunità artistica più ampia, dove l’identità coreografica non si costruisce mai in isolamento, ma sempre nella relazione: con il pubblico, con altri artisti, con le istituzioni e con le dinamiche del presente. In questa fase, ho iniziato a percepire come la mia voce coreografica potesse avere un posto in una scena più complessa e sfaccettata. Una tappa cruciale di questo percorso è stato il periodo di studi all’Impulstanz di Vienna, un’esperienza che ha lasciato un’impronta profonda e duratura nel mio modo di intendere la danza. Il contesto internazionale, la possibilità di lavorare a stretto contatto con maestri e performer di diverse provenienze, ha arricchito non solo le mie competenze tecniche, ma soprattutto la mia visione del corpo come spazio culturale. Lì ho compreso quanto il gesto, anche il più semplice, possa essere carico di senso, memoria e relazione. È stato anche un momento di apertura verso l’ibridazione dei linguaggi, il superamento delle etichette, e una maggiore consapevolezza del movimento come pratica di pensiero incarnato. Nel 2011, con la produzione Cemento, ho vissuto una vera e propria svolta artistica. Questo lavoro ha rappresentato per me un punto di maturazione stilistica, in cui ho riconosciuto – per la prima volta con chiarezza – i tratti distintivi del mio linguaggio: la fisicità concreta, la tensione tra fragilità e forza, l’uso essenziale dello spazio e della luce, la presenza emotiva come centro del movimento. Cemento è nato in un momento in cui ero chiamata a fare scelte radicali, e ho deciso di restare fedele alla mia visione, anche a costo di affrontare le inevitabili difficoltà di un mestiere che richiede costanza, sacrificio e resilienza. È stato anche un atto di fiducia verso me stessa e verso la danza come forma di verità, più che di rappresentazione. Tutte queste esperienze, comprese quelle più complesse e sfidanti, hanno contribuito a costruire la mia identità artistica: non come un “marchio”, ma come una posizione poetica precisa, riconoscibile per chi guarda e soprattutto per chi danza con me. Oggi, sento che la mia ricerca si fonda sull’ascolto dell’istinto e su una curiosità continua verso ciò che il corpo può ancora rivelare, in relazione allo spazio, al suono, alla luce, al tempo presente. La danza contemporanea, per come la vivo, non è un insieme di forme predefinite ma una pratica viva di trasformazione, personale e collettiva. È un linguaggio in evoluzione, che cresce insieme alla persona che lo attraversa. Per questo, il mio percorso è inseparabile dalla mia biografia, dalle mie scelte e dalle mie domande, e si muove sempre tra ciò che mi tocca profondamente e ciò che, attraverso il corpo e la performance, può diventare condivisibile e universale.

Quali sono le radici stilistiche e le influenze artistiche che ritiene imprescindibili nel Suo lavoro coreografico e come si riflettono nelle Sue creazioni?

L’architettura contemporanea ha influenzato – e continua a influenzare in modo significativo – il mio lavoro coreografico. In particolare, l’estetica essenziale e il dialogo tra spazio vuoto e materia propri dell’architettura giapponese, come nelle opere di Tadao Ando o del duo SANAA (Kazuyo Sejima e Ryue Nishizawa), offrono spunti fondamentali per la composizione coreografica. La loro capacità di modellare lo spazio attraverso la luce e il silenzio trova un’eco nel modo in cui il corpo, in scena, si relaziona al vuoto e al tempo. Anche la musica elettronica, con le sue pulsazioni ritmiche e le stratificazioni sonore esercita un’influenza diretta sulla costruzione del movimento e sulla dinamica della performance. Artisti come Richie Hawtin, Alva Noto o Ryuichi Sakamoto hanno contribuito a una visione del suono come “ambiente” e “materia”, capace di guidare la scrittura coreografica in maniera immersiva e sensoriale. La moda contemporanea, infine, rappresenta un ulteriore terreno fertile di contaminazione: stilisti come Hussein Chalayan, Issey Miyake, Iris van Herpen o Yohji Yamamoto hanno trasformato l’abito in un’estensione del corpo, ridefinendo il modo in cui il movimento può essere percepito, reso visibile o persino amplificato attraverso il tessuto. Le loro creazioni non sono semplici vestiti, ma veri e propri “dispositivi performativi”. Dal punto di vista iconografico e narrativo, trovo ispirazione anche nell’arte antica, in particolare nella pittura e nella scultura greca e romana. Le posture, le anatomie idealizzate e le rappresentazioni mitologiche dei corpi offrono suggestioni corporee che possono essere riattualizzate nella danza contemporanea. Così come la potenza narrativa e simbolica dei miti greci continua a suggerire archetipi emotivi e drammaturgici da esplorare in chiave performativa. La danza contemporanea, per sua natura, è una forma d’arte permeabile, che vive della relazione costante tra il corpo, lo spazio e le influenze esterne. Ogni movimento è una forma di pensiero incarnato, e ogni performance può diventare il luogo di incontro tra differenti linguaggi estetici. In questo senso, l’architettura modella il modo in cui il corpo si orienta nello spazio, la moda ne trasforma la silhouette e l’identità visiva, la musica ne guida il ritmo interno, mentre l’arte e il mito lo connettono a una memoria collettiva e simbolica.

In che direzione si è sviluppata la Sua ricerca coreografica nel corso degli anni e quali temi o elementi ritiene centrali nel Suo lavoro oggi?

I miei lavori coreografici si fondano su una forte e dinamica relazione tra spazio, suono, luce e corpo. In questa interazione, ogni elemento non è semplice contesto o sfondo, ma parte attiva del linguaggio performativo. Il corpo non esiste mai isolato: si plasma e si trasforma attraverso il dialogo costante con l’ambiente che lo circonda, diventando strumento di percezione e di riflessione sensibile. La danza contemporanea, per sua natura, è un’arte del presente e dell’interazione: si costruisce nell’”abitare” il luogo, che può essere un teatro, uno spazio urbano, una struttura architettonica o un paesaggio naturale. In questo senso, i miei lavori nascono dalla relazione viva tra il luogo e gli interpreti che lo abitano, rendendo ogni performance unica e site-specific, frutto di una connessione reale e in continua evoluzione. Il movimento si nutre di memoria, di racconto, di relazioni invisibili che emergono attraverso il gesto. Le traiettorie del corpo evocano storie non dette, emozioni taciute, dinamiche umane profonde. In questo processo, la danza contemporanea diventa un atto di ascolto, di osservazione, di costruzione collettiva di senso. Un’esperienza immersiva, in cui ogni elemento concorre a costruire un racconto fisico e sensoriale, fatto di presenza, trasformazione e relazione.

Come definirebbe il suo processo creativo? Preferisce partire da un’idea concettuale, da un movimento, o da una ricerca emotiva?

I miei lavori nascono quasi sempre “dalla pancia”, da una spinta interiore viscerale, primitiva, non mediata. La mia è una ricerca fortemente emotiva: il corpo diventa un veicolo diretto di ciò che sento, di ciò che mi attraversa, prima ancora di ciò che penso. In questo senso, il processo creativo è sempre profondamente personale, a tratti intimo, e spesso nasce da una necessità reale, quasi fisica, di esprimere qualcosa che non troverebbe altre vie per manifestarsi. La danza contemporanea mi offre questo spazio di libertà, in cui il corpo non è costretto a raccontare “una storia” nel senso narrativo del termine, ma può portare in scena il peso, la fragilità, la rabbia, la gioia o il silenzio dell’esperienza vissuta. Non parlo mai, o quasi mai, di storie altrui: non per disinteresse, ma perché credo che ciò che viene elaborato attraverso un’esperienza autentica diventi, paradossalmente, più universale. Quando un gesto nasce da un’urgenza reale, può parlare anche agli altri – anche se non ne racconta esplicitamente la vita. Nel mio lavoro, la danza non rappresenta la danza. Non è estetica fine a sé stessa, né intrattenimento, né mera tecnica. È una forma di ascolto, di espressione e di resistenza. Vengo da una sensibilità che sente molto profondamente le tensioni del presente, le dinamiche affettive, sociali e politiche che attraversano il nostro vivere quotidiano. La solitudine, l’ansia, il desiderio di appartenenza, la pressione costante alla performance (non solo artistica ma esistenziale) sono elementi che emergono spontaneamente nei miei lavori, perché li vivo in prima persona. Il mio corpo è il primo strumento d’indagine: attraverso il movimento cerco di tradurre la complessità dell’esperienza emotiva in un linguaggio che non pretende di spiegare, ma solo di far sentire. In questo, mi sento vicina a una visione della danza contemporanea come forma di presenza radicale, come atto vulnerabile ma potente, che mette in gioco la soggettività senza chiuderla in una narrazione didascalica. Ogni creazione è quindi anche un processo di auto-conoscenza e, allo stesso tempo, una riflessione sul mondo che abitiamo. Non c’è mai un confine netto tra ciò che è personale e ciò che è collettivo: il corpo è sempre immerso nel sociale, e ciò che sento come mio spesso è il riflesso di un sentire più ampio. In questo modo, anche senza raccontare “la storia di altri”, i miei lavori possono entrare in risonanza con chi guarda, aprendo uno spazio emotivo condiviso.

La Sua coreografia “Balance” esplora con intensità la dualità tra tempesta e serenità, affrontando temi di crisi e rinascita. Quali riflessioni personali o esperienze artistiche hanno alimentato questa visione coreografica?

Balance è un lavoro che esplora con intensità la dualità tra tempesta e serenità, un conflitto emotivo e simbolico che trova nella danza contemporanea un linguaggio ideale per manifestarsi. La coreografia si costruisce come un dialogo continuo tra forze opposte: tensione e rilascio, caos e ordine, resistenza e abbandono. Il corpo diventa il luogo in cui queste polarità si incontrano e si sfidano, restituendo allo spettatore un’esperienza fisica ed emotiva che non ha bisogno di parole per essere compresa. Il lavoro nasce dalla volontà di indagare momenti di crisi personale, ma anche collettiva, come possibilità di trasformazione. I danzatori non “rappresentano” uno stato emotivo, ma lo attraversano, lo incarnano, lo rendono visibile nella materia viva del movimento. Attraverso una composizione coreografica che alterna gesti frammentati, interruzioni improvvise, sospensioni e momenti di piena fluidità, il lavoro riflette il passaggio dalla tempesta interiore – fatta di instabilità, perdita di controllo e smarrimento – alla ricerca di un nuovo equilibrio, che non è mai statico, ma sempre in divenire. In questo senso, la danza contemporanea diventa non solo una forma d’arte, ma anche un atto esistenziale: una pratica che accoglie la vulnerabilità come risorsa creativa e che fa del corpo un territorio di rinascita.Il tema della rinascita non è inteso come ritorno a una condizione ideale, ma come apertura a nuove possibilità. Balance mette in scena un equilibrio fragile, instabile, umano: un equilibrio che si costruisce nel gesto, nel respiro, nella relazione con l’altro e con lo spazio.

Nel processo creativo di “Balance”, come ha guidato i danzatori nel tradurre in movimento concetti così profondi come la resilienza e la trasformazione interiore?

Nel creare questa coreografia, ho scelto di partire non da una forma predefinita, ma da una domanda profonda: *cosa significa attraversare una crisi e uscirne trasformati?* Ho guidato i danzatori in un processo emotivo, chiedendo loro di attingere a esperienze personali, lasciando che il movimento emergesse dal corpo in modo autentico. Il disegno coreografico è stato costruito come una composizione visiva e poetica, creando immagini forti che evocano la fragilità, la resistenza e la rinascita. Ho utilizzato la metafora dell’arcobaleno, simbolo di speranza e trasformazione, per rappresentare il passaggio dalla tempesta alla serenità. Le sfumature del grigio, che richiamano la confusione e l’instabilità, si sono gradualmente trasformate in colori brillanti, simbolo di apertura, equilibrio e rinnovamento. Allo stesso tempo, ho lasciato spazio all’interpretazione personale di ogni danzatore, permettendo che il gesto si trasformasse nel tempo, arricchendosi di nuove sfumature. La resilienza è emersa non come forza rigida, ma come capacità di adattamento, come trasformazione viva. Nel tempo, ho visto i danzatori cambiare, diventare più presenti, più essenziali. Il lavoro ha preso forma come un racconto fisico e collettivo, in cui ogni gesto restituiva le tracce profonde di un vissuto reale.

 “Get The Show: 5 DIMENSIONI” mette in luce la versatilità della nuova generazione di danzatori attraverso linguaggi coreografici diversi. Qual è il Suo approccio nel lavorare con giovani artisti in formazione?

Lavorare con giovani danzatori in formazione offre l’opportunità di esplorare nuove possibilità espressive e di contribuire alla loro crescita artistica. In qualità di coreografo, trovo stimolante guidarli attraverso processi creativi che incoraggiano l’autonomia e la consapevolezza del corpo. I giovani danzatori possiedono una versatilità che li rende particolarmente adatti all’approccio della danza contemporanea, dove l’improvvisazione e la sperimentazione sono fondamentali. Questa flessibilità fisica e mentale permette loro di adattarsi a diverse tecniche e linguaggi, arricchendo il processo creativo con nuove prospettive. Inoltre, la loro apertura all’apprendimento e alla collaborazione facilita la creazione di un ambiente dinamico e stimolante. Accompagnare questi giovani nel loro percorso formativo non solo contribuisce alla loro crescita professionale, ma arricchisce anche la mia pratica artistica, offrendo continui stimoli e occasioni di riflessione. Credo fermamente che la danza sia un linguaggio in continua evoluzione, e lavorare con le nuove generazioni è un modo per mantenerlo vivo e in trasformazione.

La danza oggi si muove in un contesto culturale e sociale complesso. Come interpreta il ruolo del coreografo contemporaneo nel dialogo con questi temi e quale contributo intende dare attraverso la Sua arte?

La danza, come la vita di ogni essere umano, si muove all’interno di un contesto complesso, frammentato, spesso disorientante. Parlare di “danza” oggi può sembrare riduttivo, quasi fuori luogo, se si pensa solo all’aspetto spettacolare o professionale. Ma se torno a riflettere sul potere che la danza ha sullo spirito, sul corpo e sulla mente, allora desidero profondamente che il mondo intero torni a danzare: nelle piazze, nelle balere, nei cortili, nei campi. Ovunque. La danza non è un linguaggio elitario. È un atto universale, un sapere antico quanto l’uomo. Le danze tradizionali e rituali, presenti in ogni cultura, nascevano per accompagnare i momenti essenziali dell’esistenza: la nascita, l’amore, la morte, la guerra, il raccolto, la guarigione. La danza era — ed è ancora — un rito collettivo, un modo per riconoscersi parte di una comunità e di un tempo condiviso. Oggi, nella danza contemporanea, ritrovo quella stessa funzione originaria: nonostante le sue forme siano cambiate, essa continua a essere spazio di resistenza, libertà, ascolto e trasformazione. Vorrei che tornassimo a pensare alla danza non solo come espressione artistica, ma come pratica di vita: danza dell’amore, della gioia, del peccato, del desiderio, della memoria. Danza per celebrare, per guarire, per esorcizzare. Credo nella danza come strumento di benessere mentale e relazionale, come modo per stare meglio con sé stessi e con gli altri. In un’epoca in cui siamo spesso scollegati dal nostro corpo e dalla nostra interiorità, danzare può essere un atto semplice ma rivoluzionario: un modo per tornare a vivere, e a vivere bene. Proprio da questa riflessione nasce il desiderio di creare uno spettacolo che celebri la danza come atto vitale e collettivo, un ritorno alle sue radici più profonde: rito, cura, liberazione e connessione tra i corpi, tra le persone, tra il passato e il presente.

Guardando al futuro, quali progetti o ambizioni artistiche ritieni prioritarie per la tua evoluzione professionale nei prossimi anni?

In questo momento della mia carriera, le mie priorità lavorative sono chiaramente focalizzate su due aspetti fondamentali: dare ancora più stabilità alla mia compagnia, Ritmi Sotterranei, e consolidare i rapporti con gli artisti con cui collaboro da anni, così come creare le condizioni per far nascere nuove collaborazioni. Questo equilibrio tra radicamento e apertura rappresenta per me una tappa cruciale nella mia crescita artistica e professionale. Ritmi Sotterranei non è solo un collettivo di danzatori, ma un luogo di ricerca e sperimentazione dove il linguaggio della danza contemporanea si evolve in dialogo con nuove sensibilità e contaminazioni. Consolidare la compagnia significa quindi rafforzare una comunità creativa che possa sostenere progetti ambiziosi e dare continuità a un percorso di ricerca. Parallelamente, sento la necessità di ampliare i miei rapporti a livello internazionale, perché l’arte vive oggi di scambi e contaminazioni globali. Entrare in dialogo con altre culture, linguaggi e pratiche artistiche non solo arricchisce la mia ricerca, ma mi spinge anche a riflettere più profondamente sulle radici e sulle direzioni della mia stessa pratica coreografica. Questa fase della mia carriera è per me un momento di consolidamento e di apertura, di stabilità e di crescita, dove la mia ricerca artistica si intreccia con la volontà di costruire relazioni durature e significative, capaci di sostenere e valorizzare il lavoro della compagnia nel panorama internazionale della danza contemporanea.

Come vede il futuro della danza contemporanea in Italia e quale ruolo crede di poter avere in questo scenario?

Il contesto culturale italiano presenta molte sfide: la mancanza di finanziamenti stabili, una visibilità limitata rispetto ad altri paesi e una certa difficoltà a creare un pubblico ampio e continuativo. Tuttavia, proprio in queste difficoltà risiede anche la forza creativa di molti artisti e compagnie che continuano a lavorare con passione, innovazione e resilienza. Credo che il futuro della danza contemporanea in Italia dipenda molto dalla capacità di fare rete, di costruire collaborazioni solide tra artisti, istituzioni, scuole e territori. La formazione, l’incontro con linguaggi diversi e l’apertura a contaminazioni internazionali saranno fondamentali per sviluppare una scena dinamica e sostenibile. Con la mia danza e il mio lavoro desidero contribuire a costruire uno scenario di danza italiana che sia non solo riconoscibile all’estero, ma anche profondamente radicato e apprezzato dal pubblico italiano. Vorrei che la danza italiana potesse raccontare una voce autentica, capace di dialogare con le diverse culture e allo stesso tempo di riflettere l’identità e la sensibilità del nostro paese. Credo fortemente nel potere dell’arte come strumento di benessere: attraverso il movimento e la performance, la danza può arrivare al cuore delle persone, toccare emozioni profonde e creare connessioni che vanno oltre le parole. Il mio obiettivo è che il mio lavoro non resti solo un’espressione estetica, ma diventi un’esperienza capace di migliorare la vita di chi la vive e di chi la osserva. Vorrei che il mio ruolo di coreografa fosse utile, non solo a livello artistico, ma anche umano: contribuire a rendere la vita migliore, più ricca di senso, più aperta all’ascolto e alla condivisione, attraverso la bellezza e la forza della danza.

Lorena Coppola

Photo Credits: Viola Pantano – Jennifer Rosati

www.giornaledelladanza.com

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