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L’ultima esibizione di Vaslav Nijinsky a Sankt Moritz

Era il 19 gennaio 1919. In una stanza d’albergo a Sankt Moritz, tra le montagne innevate dell’Engadina, Vaslav Nijinsky, il più grande danzatore della sua epoca, danzò per l’ultima volta.

Ma non su un palcoscenico, non in costume, non davanti a un pubblico teatrale. Il suo corpo, che aveva stregato l’Europa con salti impossibili e uno sguardo che toccava il divino, si muoveva ora davanti a pochi intimi, mentre scivolava inesorabilmente verso la follia.

Quella non fu una performance nel senso convenzionale. Fu un rituale tragico, un grido corporeo che preannunciava la fine della sua carriera, e forse anche la fine del confine tra arte e delirio.

Nel 1917, Nijinsky si era ritirato dalle scene. Dopo anni di gloria con i Balletti Russi di Sergej Djagilev, una tormentata relazione personale e artistica con il mecenate russo, e un matrimonio improvviso con Romola de Pulszky, il danzatore era caduto in un lento crollo psichico.

La guerra, l’esilio, l’isolamento, la fine del sodalizio con Djagilev, le pressioni della celebrità si intrecciarono in un quadro fragile. Sankt Moritz, scelto come rifugio per la salute mentale, divenne invece lo scenario del suo addio.

Quella sera di gennaio, invitato da amici e pochi ospiti, Nijinsky improvvisò una danza che sarebbe poi stata ricordata come il Balletto di Dio.

Non c’erano musiche né coreografie scritte. Solo lui, la stanza, e un bisogno disperato di comunicare qualcosa che le parole non riuscivano più a contenere.

Secondo i racconti di Romola e dei presenti, Nijinsky parlava, danzava, piangeva. Alternava movimenti meccanici a gesti estatici.

Gridava contro la guerra, contro gli uomini che avevano smarrito Dio.

Quel momento segnò simbolicamente la rottura definitiva con la danza professionale. Pochi giorni dopo, Nijinsky fu affidato alle cure psichiatriche e diagnosticato con schizofrenia paranoide. Non sarebbe mai più salito su un palcoscenico.

La danza, per Nijinsky, era sempre stata qualcosa di più del movimento: era trascendenza, religione, passione cosmica. Nei suoi ultimi anni lucidi, la sua attenzione si era spostata verso una danza interiore, fatta di simboli, angoscia e spiritualità. Lontano dai costumi e dalle ovazioni, il suo corpo cercava una verità che non poteva più essere contenuta nei codici scenici.

A Sankt Moritz, quel corpo non cercava l’applauso. Danzava per esistere, per resistere. E nel farlo, forse, offriva il gesto più puro della sua vita artistica: una danza senza spettatori, senza coreografia, senza finalità estetica.

L’ultima esibizione di Nijinsky non fu registrata, né fotografata. Ma è sopravvissuta nei ricordi, nei racconti, nei Diari scritti proprio in quel periodo, in cui emerge il suo pensiero visionario, confuso ma straordinariamente lucido in certi passaggi: la guerra come follia collettiva, l’arte come salvezza, Dio come presenza corporea.

Oggi, molti coreografi contemporanei rileggono quel gesto come l’inizio della danza del Novecento interiore: una danza che rompe i confini, che si fa linguaggio dell’anima e non solo del corpo.

In quella notte di Sankt Moritz, il più grande danzatore del secolo non smise di danzare: semplicemente lo fece in un’altra dimensione, dove il gesto non era più intrattenimento ma necessità.

E forse proprio lì, nel momento in cui la danza si libera dalla forma e si fa testimonianza, Nijinsky tocca il suo vertice più autentico. Un addio che non è fine, ma trasformazione.

Michele Olivieri

www.giornaledelladanza.com

©️ Riproduzione riservata

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