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Red Giselle: storia del capolavoro di Boris Eifman

Nel silenzio di un teatro immerso nel buio, una donna danza. I suoi gesti sono spezzati, frenetici, attraversati da memorie che non le appartengono più. Non c’è applauso, non c’è pubblico. Solo una voce interiore che insiste, che urla, che la spinge a continuare.

Questo è Red Giselle, il capolavoro di Boris Eifman, una creazione che non racconta semplicemente una storia, ma la frantuma e la ricompone in un corpo che cede, si ribella, resiste. Una ballerina, due destini Red Giselle non è un balletto tradizionale. Non ha una trama lineare, né una sola protagonista.

È, piuttosto, un corpo doppio: quello di Olga Spessivtseva – leggendaria étoile russa della prima metà del Novecento – e quello di Giselle, l’eroina romantica per eccellenza. Due destini fusi in uno: una donna che fu acclamata nei teatri imperiali, poi fuggitiva, fragile, inghiottita dalla follia.

Ma Eifman non si limita a raccontare una biografia. Usa la danza come linguaggio psichico. Ogni gesto è una ferita, ogni sollevamento un tentativo di volo, ogni caduta un ritorno violento a terra, alla realtà, alla gabbia che imprigiona il corpo e la mente. La scena si apre con un’accademia di danza, fredda e rigida come una caserma. I corpi si muovono in sincrono, obbedienti.

La protagonista – la Ballerina, mai chiamata per nome – è una creatura di carne viva dentro un meccanismo di ferro. Il potere la osserva, la dirige, la controlla. Non ci sono solo passi da memorizzare, ma ideologie da incarnare. La fuga in Occidente è una parentesi ambigua. La libertà ha il sapore dell’illusione.

A Parigi, la Ballerina danza Giselle, ma il palco diventa specchio della sua fragilità. Non c’è più distinzione tra personaggio e persona, tra finzione e verità. L’arte che l’ha salvata ora la consuma.

Il cuore del balletto pulsa nel suo terzo atto: il crollo mentale. Niente più teatro, niente più scena. Solo un letto d’ospedale, mura bianche, corpi deformati dalla paura. La danza non si interrompe: si fa contorsione, spasmo, grido. Non c’è redenzione, ma c’è una forma di bellezza in questa rovina. È l’arte che, anche nel delirio, continua a dire qualcosa di essenziale sull’essere umano.

La colonna sonora è un collage geniale: Čajkovskij, Rachmaninov, Bizet. Nessuna melodia è intera, tutto è frammentato, come se anche il suono si stesse perdendo. La musica accompagna le visioni, le accende, le spezza. Non segue la logica della narrazione, ma quella della mente che vacilla.

La scenografia è essenziale, funzionale al vuoto. Le luci fendono il palco come lame. Ombre gigantesche si proiettano sui corpi, amplificano il senso di sorveglianza, di ansia, di dissoluzione.

Il palcoscenico diventa spazio mentale, sogno e incubo. Red Giselle non è una semplice variazione su un classico. È una dichiarazione d’intenti. È il tentativo coraggioso di portare sul palco la fragilità mentale, la persecuzione politica, il prezzo della sensibilità. In un’epoca in cui la danza è spesso bellezza e virtuosismo, Eifman ci ricorda che può (e deve) essere anche ferita, dubbio, dissenso.

Olga Spessivtseva passò anni in silenzio, chiusa in un ospedale psichiatrico. Ma attraverso Red Giselle, la sua storia – e quella di tutte le artiste spezzate – è tornata a parlare. A urlare. A danzare.

C’è qualcosa di profondamente contemporaneo in Red Giselle. Perché parla di identità frammentate, di libertà negate, di corpi che non riescono più a trovare il proprio posto. Ma soprattutto, parla del potere dell’arte: non come salvezza facile, ma come necessità feroce. La danza non guarisce, ma racconta. E in questo, resiste!

Michele Olivieri

www.giornaledelladanza.com

© Riproduzione riservata

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