C’era un tempo in cui il balletto non aveva la pretesa di essere eterno. Ogni gesto, ogni passo, ogni arabesque svaniva nell’aria appena tracciato. Le coreografie non si scrivevano, si trasmettevano. Vivevano nel corpo di chi danzava e scomparivano con lui. Eppure, proprio in quell’epoca effimera, tra il marmo dei teatri imperiali e la polvere delle tavole di scena, due uomini hanno scolpito la forma stessa di ciò che oggi chiamiamo balletto classico: Marius Petipa e Lev Ivanov. Marius Petipa, nato a Marsiglia nel 1818, non era destinato alla Russia, ma fu la Russia a destinarlo al mito. Figlio di un maestro di danza, assorbì il vocabolario teatrale fin dalla culla. Ma fu nel gelo pietroburghese che la sua vocazione trovò forma: la coreografia come architettura. I suoi balletti – da La Bayadère a Raymonda, da Don Quixote a Le Corsaire – non erano solo danze, ma cattedrali costruite con corpi. Petipa era un compositore di spazi, un regolatore della geometria scenica. In lui, la danza diventava ordine, disciplina, narrazione mitica. I suoi celebri pas d’action, la simmetria delle formazioni, il modo in cui coreografava le masse e la narrazione, trasformavano ogni balletto in una macchina teatrale perfettamente oliata. La ...
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