Hai debuttato giovanissimo con la compagnia Aterballetto, ti sei poi spostato all’estero per avere un respiro artistico internazionale, sei rientrato in Italia e all’apice della tua carriera artistica hai deciso di lasciare il palco e dedicarti all’insegnamento. La tua vita è sempre stata un turbine di emozioni… ora come ti senti? La tua vita è cambiata?
Il mutamento costante è stato, ed è, il filo rosso del mio percorso di crescita interiore. Come l’evocazione di una Fenice leggendaria e fiammeggiante, sempre viva e sempre nuova, la trasformazione delle condizioni esterne dell’esistenza nel senso di una corrispondente auspicabile evoluzione personale – talvolta prescelta, talaltra fermamente indotta – ha rappresentato il motivo centrale e imperituro nell’inevitabile e benvenuta transitorietà degli eventi. L’appassionante senso di avventura, la curiosità, una buona dose di coraggio e certamente la fiducia sono alcuni dei profumi che hanno sanamente inebriato, mediante la conoscenza dell’arte, la ricerca di me stesso.
Hai danzato ruoli importantissimi: per ciascuno hai messo tutto te stesso, ti sei dovuto immedesimare nel personaggio… non è cosa facile, anzi! Tu come ti preparavi? E soprattutto: qual è il ruolo che più hai amato e perché?
È vero: ho danzato ruoli importantissimi. Ed ogni volta che ci ripenso, tremo: ho un tale rispetto per quei capolavori di bellezza, per quei testi sacri di sapere, che quasi non credo di essere stato veramente io, anche solo per un attimo, a sfiorarli. Se penso al Lago del debutto e alla sensazione inestimabile, mai provata prima, di una trama secolare che nasceva in scena con il mio personaggio ed attraverso di me si esaltava e si espletava (e pure alla coda del Cigno Nero e a quel mio polpaccio sinistro che nei tours à la seconde sembrava volere prendersi una pausa); alla mia prima indimenticabile Giselle a sorpresa sostituendo l’atteso Bolle; a Lo Schiaccianoci, bellissimo ed assai apprezzato ma pieno di pungenti retroscena d’ogni sorta; alle uniche tre prestazioni come Uccellino Blu ne La Bella, anche quelle impreviste e scampate agli attacchi dei cosiddetti rivali ma dense di memorie di forza commovente. Mefistofele nel Faust (il mio rôle fétiche), lo scatenato Alonso de La Gitana, e ancora Pulcinella di Massine o il Re Lear en travesti, il Marito nel Girotondo che strizzava l’occhio a Schnitzler: insomma demoni beffardi, aristocratici tormentati, principi angelicati, maschere saltellanti da Commedia dell’Arte, ironici maniaci sulle note di Rota e British characters del più alto rango, e tanti altri mondi ancora… Sarebbe impossibile scegliere solo uno di questi signori di verità e fantasia, e quindi li abbraccio tutti come compagni d’elezione di uno straordinario viaggio all’interno di sé.
Sei stato definito “giovane artista dalla personalità e dal carisma ineguagliabili. Le sue interpretazioni sono il frutto di un estenuante lavoro di ricerca, di sintesi e di introspezione, completate da una tecnica robusta e matura”. Quale parte di questa frase ti rappresenta di più?
Si tratta della motivazione del premio intitolato alla compianta coreografa Anita Bucchi, l’ultimo dei riconoscimenti che hanno gratificato la mia carriera in scena, ed è arricchita da parole fin troppo lusinghiere. Sicuramente mi riconosco nel processo alchemico di profonda elaborazione introspettiva, che mi ha permesso di colorare le mie caratterizzazioni sceniche a tinte forti e di nutrire anche la mia vita in un costruttivo procedimento di apprendimento culturale; mi inorgoglisce poi il traguardo specificamente tecnico di essere riuscito a costruire passo per passo un impianto abbastanza completo di strumenti espressivi tali da colmare le iniziali lacune scolastiche, da illuminare le predisposizioni fisiche e artistiche e da poter accedere ad un eclettico ventaglio di registri stilistici. Per ciò che si riferisce alla personalità, ebbene quella c’è senz’altro ed è tempestosamente passionale, a dispetto di un’apparenza che potrebbe in superficie tradirsi distaccata. Quanto al carisma, non saprei… sta al pubblico stimarne l’eventuale presenza, e può dirsi inevitabilmente impareggiabile in quanto, per estensione e definizione, è letteralmente quel “dono di grazia” che rende, nella scatola magica del palcoscenico, forse un poco più speciali.
Si parla di “fuga di cervelli” ma non si cita mai la “fuga di ballerini” – tu sei uno di questi: hai lasciato l’Italia e non vi hai danzato per alcuni anni. Che cosa ti ha dato il periodo trascorso a Ginevra e poi a Lipsia? Rimpiangi, magari, di non esserti stabilito lì ed aver proseguito la tua carriera di danzatore all’estero?
No, affatto: non ho ripensamenti di sorta. Un po’ come sussurra il Merlino di Britannia nei simbolici universi de Le Nebbie di Avalon, si fa ciò che si è nell’istante stesso in cui lo si fa – quindi tutte le mie decisioni sono state espressione diretta di esigenze vitali che tuttora affermo e confermo. Posso semmai volgere un ricordo felice a Marsiglia, una città vivace e a misura d’uomo, col suo sole e le sue calanques, e senz’altro Roma al confronto può stressarmi un po’; però ho finalmente trovato la mia dimensione naturale con una minuscola casetta tutta mia che adoro ed un’attività professionale da cui ricevo un’energia del tutto positiva. L’esperienza in Svizzera mi ha introdotto al mercato europeo, mentre dalla compagnia di Uwe Scholz ho avuto in regalo il primo ed unico Kylian del mio repertorio; inoltre le frequenti tournées mi hanno fatto conoscere luoghi geografici e costumi sociali di grande interesse. Però quella era la primavera della vita, il momento dell’esplorazione e della scoperta, ed ho desiderato concluderla: ora sento cominciare un autunno affascinante, pieno di rivelazioni.
Sei riuscito a portare in Italia gli insegnamenti appresi all’estero o credi che la tradizione della danza in Italia non sia ancora pronta ad accettare consigli “stranieri”?
Ho avuto risultati del tutto insperati al momento della prova del fuoco: la grande scommessa di giocare, sul tavolo della partita, i primi sei intensissimi anni da professionista – dall’Ater al Ballet de Genève, dal Leipziger Ballett alla Scala e alla Compagnia Nazionale di Marie-Claude Pietragalla – per imprimere una svolta decisiva e risolutiva alla mia carriera e tornare da protagonista proprio all’Opera di Roma (dove avevo assistito al mio primo emozionante balletto dal vivo, da bambino) si è tradotta in una clamorosa vittoria e nel raggiungimento finale di una realizzazione d’artista talmente piena che non avrei mai neanche azzardato di fantasticarne la possibilità. Dunque, se il precoce apprendimento all’estero è stato per me irrinunciabile tanto quanto la sua manifestazione successiva, per contro dispiace rilevare ancora e sempre l’ingombrante tendenza gestionale che per motivazioni non artistiche, nello “show business” del balletto, preferisce l’importazione di frutti gustosi – ma non necessariamente così nutrienti – da luoghi lontani ed esotici alla volontà benedetta di spargere sementi nostrane intrise di sapori distintivi, per raccogliere infine il rinnovato sbocciare di meraviglie remote, in quanto parte stessa di noi, e sorprendenti.
Perché, secondo te, sono pochi i danzatori italiani che, dopo un’esperienza all’estero, riescono a rientrare nel loro Paese e proseguire la loro carriera in importanti teatri italiani?
Semplicemente perché i procedimenti amministrativi dei contesti teoricamente deputati all’arte non hanno con questa nulla a che vedere e gli indomiti figli della nostra rinomata tradizione coreutico-musicale, seppur muniti di virtù incredibilmente trascurabili quali la bravura e a volte persino di talento, quasi non hanno speranza di rientrare in un circuito malsano e provinciale a conduzione prevalentemente familiare se sprovvisti delle protezioni opportune. Il glorioso caso della superstar Ferri, tornata a Milano con un tipo di contratto senza precedenti in anni recenti, è purtroppo un’eccezione di cui mi rallegro enormemente; un’altra pur celebratissima italiana, Viviana Durante, è riuscita invece a danzare la sua Aurora nella capitale solo una volta, dodici anni fa, e probabilmente grazie all’intercessione del suo mentore, la russa Galina Samsova. Gli esempi dei nostri danzatori che nel tempo si sono fatti molto onore, pur senza rimanere nella memoria dei più perché non accolti nei teatri di casa e non mediatizzati a sufficienza, compongono una lista che forse sarebbe impossibile completare. Accenno solo ad una mia amica preziosa e dotata di qualità fisiche fenomenali, Francesca Sposi, la quale, nella prospettiva certa di un calvario artistico immeritato nei corridoi e nelle sale del Teatro dell’Opera, appena diciottenne era stata grazie al Cielo prelevata da Roland Petit che ne aveva fatto una delle più deliziose soliste della sua compagnia d’autore. Persino l’icona Fracci è stata infine espulsa dal medesimo contorto meccanismo che l’aveva a lungo servita! Il mio singolare percorso (e lo ammetto col sollievo di chi schiva un baratro oscuro appena per un soffio) sembra invece avere del miracoloso perché – pur essendo stato emotivamente sconvolgente in senso assoluto, per così dire negativo e positivo a un tempo – non ha seguito il prevedibile copione del ballerino esiliato che vive brevi anni di carriera brillante per poi costruirsi una vita lontano dalla terra natia, né la deprimente realtà dello stabile maturo che tanto non può quanto ancora vorrebbe (una situazione che oggi si impone altrettanto effimera, tra l’altro).
Hai lasciato la danza “ballata” ma ora la insegni: oltre alla tecnica, cosa cerchi di dare ai tuoi allievi?
Affinché il movimento sia pieno di naturalezza, pur nell’artificio di un linguaggio raffinato che si protende al sublime, è necessario coinvolgere i differenti piani dell’essere (fisico, emotivo, mentale) per ottenere con fluidità un’unità olistica di cui spesso neanche si è del tutto consapevoli. Proponendo con cura dettagliata un lavoro minuzioso sulla struttura anatomica e sulle sensazioni muscolari fondamentali, intervenendo attentamente su un atteggiamento rilassato che è alla base della tranquillità delle emozioni e quindi di un agire sereno, ed offrendo sfumature ritmiche e combinazioni di passi non complesse da confondere ma abbastanza elaborate da stimolare la presenza di sé, mi auguro di potere accompagnare nel migliore dei modi a me possibili le persone con cui interagisco in sala ballo. Naturalmente, come in ogni forma di dialogo, anche nell’insegnamento della danza classica molto dipende dal referente che si ha e dalla sua disponibilità a ricevere. Il contatto quotidiano con le più varie fasce d’età (che sono tanti insospettati spicchi di umanità) e con i diversi livelli di preparazione accademica permette poi di mettermi continuamente alla prova e di sperimentare gli innumerevoli colori presenti nella mia tavolozza di creativo, per un dipinto finale che spero trovi il suo senso di armonia e di armonia conceda la percezione pur nell’estrema molteplicità delle sfumature ritratte. In sincerità, nel processo di estroversione cui mi dedico dando la classe agli allievi, penso proprio di essere io ad esercitarmi davvero e ad imparare grazie a loro.
Come prepari le tue lezioni? E soprattutto: sei un insegnante rigoroso?
Rigoroso nell’accezione di profondamente responsabile, di certo; se alludi alla proverbiale severità della disciplina con cui piace sempre speziare i racconti del settore, direi proprio di no. Anzi, posso essere – e spessissimo sono – inaspettatamente giocoso, ma sempre dipende dalle necessità del caso, da ciò che ritengo più utile per aiutare il praticante ed eventualmente per conseguire un buon obiettivo didattico. Ho avuto anche faticose ma affettuose soddisfazioni nel cimentarmi in modeste composizioni coreografiche di base squisitamente classica, come il verdiano Danse d’école, concepito per le ragazze del centro Kiki Urbani e applaudito dal pubblico romano del Quirino Vittorio Gassman con suggestivo calore. Del resto, assumendo ad ideale i blasonati capisaldi della firma tersicorea, confesso l’innamoramento viscerale per l’intricato cesello ashtoniano, per gli incauti slanci di MacMillan, per talune raffinatezze “chic” di monsieur Petit e per l’elettrizzante dinamica balanchiniana; nutrito e ben sazio di cotanta ambrosia, qualora affiori l’occasione di impegni per il palcoscenico o di sequenze per l’allenamento quotidiano – e beninteso centrandomi in un prospettiva creativa del tutto personale – quel tipo di gusto, per così dire occidentale della miglior scuola, riaffiora e probabilmente mi rende riconoscibile: in altre parole, prendendo le mosse dal ricco mondo culturale in cui mi sono educato sin da piccolo, scelgo e genero una strada che sia assolutamente ed unicamente mia.
Che cos’è la danza per te?
Correrò il rischio di pronunciare termini retoricamente convenzionali: la danza è stata l’amore della mia vita. Però, allo scoccare della mezzanotte, abbiamo furiosamente litigato. Mi aveva deluso: io credevo nella sua matrice intima, concretamente e ardentemente spirituale, e lei mi si proponeva ovunque in maniera perversa a disposizione dei giochi sterili di presenzialismi e di potere, alimentando senza tregua competizioni idiote ed infantili velleità. Avrei voluto non incontrarla mai più, ma poi ho capito: non era lei ad avermi necessariamente tradito, ma era stata piuttosto l’incoscienza della natura umana collettiva ad averla fraintesa e ad esserne servita impietosamente. Persino io, per un attimo, ho osato l’imprudenza di cadere nella trappola dell’ambizione e del “volere” ad ogni costo scavalcando gli autentici propositi di partenza, e mi sono arrestato in tempo, sospendendomi in aria, al punto più alto e più giusto della mia ascesa come danzatore. Oggi lei è ancora con me, è dentro di me, per sempre protetta e inattaccabile insieme ai tesori più preziosi del mio vissuto, ma siamo ormai cresciuti: alla resa dei conti è il mezzo di lavoro attraverso cui, giorno dopo giorno, imparo a vivere.
Un messaggio che vorresti dare e che meglio descrive la “tua” danza…
Adoro le famose parole di Osho, quando recita: “…celebrazione è il mio messaggio. Sii lieto, canta, danza… e danza così totalmente che il tuo ego si sciolga e svanisca. Danza così totalmente che il danzatore scompaia e rimanga solo la danza”. Tanto vero per il balletto nella sua proposta teatrale, che sia puramente estetica o piuttosto narrativa, quando l’interprete di levatura autentica riesce a dimenticarsi e, quale tramite di una Verità ben più grande, a re-inventare il respiro stesso del movimento. Tanto vero per la danza come valore in sé, come educazione al bello al buono e al vero, quando il velluto rosso del sipario ha infine inghiottito quel medesimo artista per l’ultima volta e a lui rimane il cuore pieno d’oro, l’oro filosofale da condividere. Tanto vero, soprattutto, per la danza della vita di noi tutti, mai fermata e mai conclusa, sempre antica e sempre nuova.
Valentina Clemente
Foto di C. Castaldi e M. Badolati