Da moltissimi anni addentro al settore della cultura e dello spettacolo, anche per eredità familiare, Gianmario Longoni è Artistic Consultant presso la società Show Bees, sita a Milano, fortemente interessata alla promozione e distribuzione di spettacoli appartenenti alle più disparate forme d’arte e d’intrattenimento. Precedentemente proprietario e direttore artistico del Teatro Smeraldo del capoluogo lombardo (precisamente dal 1982 al 2012), Longoni pone le fondamenta non solo del suo operato, ma anche della propria visione contemporanea del settore d’interesse, sul concetto di eterogeneità degli stili performativi, nonché di altissimo livello qualitativo per salvaguardare il rispetto del pubblico. A dimostrazione di ciò, il portfolio Show Bees annovera spettacoli che spaziano dal balletto classico alla commedia musicale, dal circo al concerto di musica leggera, proponendo titoli di grido come Notre Dame de Paris, Matthew Bourne’s Swan Lake, Cirque Éloize e Jesus Christ Superstar, solo per citarne alcuni.
Partiamo da un tassello importantissimo della sua carriera professionale, il Teatro Smeraldo di Milano, aperto nel 1942 e chiuso definitivamente nel 2012. Che ricordi conserva del suo periodo di direzione artistica e come saprebbe descrivere la risposta del pubblico a quel tipo di programmazione degli spettacoli?
Il Teatro Smeraldo era nato sulla scorta di un grande entusiasmo: prima di essere un edificio teatrale, quel luogo era un cinema a luci rosse, ubicato in un quartiere milanese non molto raccomandabile (veniva chiamato, infatti, “el sit dei lader”, la zona dei ladri). Ci sono capitato per caso, arrivando da Venezia nel 1982 e costatando in prima persona il balzo temporale dagli ancora ben radicati anni ’70 della vita nella Serenissima ai superficiali anni ’80 della società meneghina. Una società quest’ultima, dunque, meno interessata alla politica e più al piacere personale, e dal punto di vista culturale votata a una ricerca prospettiva, più che evolutiva. In tutto questo la struttura dello Smeraldo riusciva a risultare ulteriormente antitetica coi suoi 2600 posti a sedere e l’impianto tipico di un edificio ante guerra. Nonostante queste premesse poco felici, io e la mia famiglia decidemmo di farcene carico per ripristinare il lustro che gli apparteneva, restando naturalmente al passo coi tempi. È così che, grazie all’aiuto di direttori artistici per i primi 3 anni e il sostegno della mia famiglia, ho girato il mondo intero alla ricerca di spettacoli dal sapore internazionale perfetti per la programmazione del nuovo Smeraldo, che a quel tempo doveva farsi strada in una scena performativa assai competitiva (basti pensare che a poca distanza vi era il Piccolo) ma non artisticamente eterogenea. Ciò che, quindi, decisi di introdurre furono spettacoli di danza contemporanea o concerti di musica leggera, verso i quali il pubblico milanese mi consegnava fortunatamente un feedback positivo, che con una sola parola definirei “vorace”. Gli spettatori milanesi erano curiosi, affamati di novità, ma nello stesso tempo pretenziosi di una qualità performativa senza compromessi. Essi sostenevano il teatro ferventemente, quindi il teatro non doveva deluderli. Questo è il ricordo più indelebile che ho nella memoria, che mi ritorna alla mente ogni giorno, perché – si sa – uno ricorda quello che gli manca, non quello con cui ha a che fare quotidianamente.
Dal Teatro Smeraldo alla nuova società Show Bees, presso la quale lei riveste il ruolo di Artistic Consultant. Nel portfolio degli spettacoli in scena si evince una palese eterogeneità di forme d’arte e d’intrattenimento. Ritiene sia questa la vostra “chiave di successo”?
Posso dirle di sì, nel senso che attraverso l’eterogeneità degli spettacoli sono sempre riuscito ad essere indipendente dai sovvenzionamenti pubblici, proprio come durante il trentennio allo Smeraldo. Dunque, Show Bees non è altro che una società commerciale, grazie alla quale è possibile offrire al pubblico una grande varietà di spettacoli, da quello molto raffinato per il quale si investono dei soldi a quello super popolare mediante il quale si raggiungono altissimi numeri di botteghino. Questa è una regola fondamentale – a mio parere – per il buon funzionamento delle imprese di spettacolo, a cui certamente fa da cornice un’accurata selezione degli spettacoli in virtù di uno “scivolamento” continuo fra i generi esistenti. Come ribadito prima, questo procedimento mi ha permesso sempre di mantenere la mia indipendenza nelle programmazioni soprattutto al fine di rispettare il pubblico, applicando dei margini civili e mantenendo il criterio della qualità.
Guardando più specificamente alla danza, il portfolio di Show Bees elenca i nomi del Ballet Trockadero di Monte Carlo, del Russian International Ballet o della Shen Wei Dance Arts, solo per citarne alcuni. Molte “sfide da botteghino” diversissime tra loro. Come le affronta?
Restando nella metafora, la “battaglia” è uguale per tutte. Affrontiamo ogni “sfida” allo stesso modo, con l’aiuto soprattutto della stampa. Il canale della comunicazione è fondamentale per promuovere spettacoli di alta qualità completamente diversi tra loro. E, a mio avviso, la danza è un’arte che si presta perfettamente a questo tipo di duttilità, in quanto dal balletto classico alla performance più ricercata la risposta del pubblico è sempre molto positiva. A tal proposito, quindi, il mio obiettivo è quello di puntare sempre alla novità, anche se spesso si tende ancora a perpetuare la messinscena di “classici” (come il Lago dei cigni) piuttosto che dare spazio a capolavori come Kaash di Akram Khan, che non era mai stato performato a Milano prima della nostra produzione. La responsabilità di ciò, quindi, non sta nel pubblico ma negli operatori dello spettacolo, i quali devono essere in grado di suscitare curiosità negli spettatori, stimolandoli a “guardarsi intorno” e comprendere la varietà di offerta che il settore artistico-performativo propone. Un’operazione difficilissima questa – ci tengo a precisarlo – soprattutto perché cozzante con una società civile interessata e attiva su molteplici tematiche. Questo poco interessamento rende faticoso senza dubbio il nostro presente, ma è allo stesso tempo indice di un lavoro passato nient’affatto compiuto a dovere. Ci siamo dimenticati di evadere il mainstream, di evitare continue scorciatoie dimenticando il rispetto per il pubblico. Il nostro mestiere non si occupa di artisti, ma di spettatori, che sono molto più poliedrici di chiunque stia sul fronte opposto alla platea.
Nel portfolio di Show Bees, inoltre, accanto agli spettacoli di danza emergono moltissimi titoli di musical assai acclamati, quali ad esempio Notre Dame de Paris, Mamma mia!, Jesus Christ Superstar e Peter Pan. Nei riguardi di spettacoli di tal genere performativo (eterogeneo per eccellenza) qual è il suo approccio? Va alla ricerca di un particolare da valorizzare ulteriormente?
Esattamente. Ed è la parte più ardua del mio lavoro! Avere a che fare col musical è ancor più complesso dell’aver a che fare col teatro di ricerca, perché rappresenta in qualche modo la “porta d’ingresso” del pubblico a teatro, il motore propedeutico alla cultura dello spettacolo dal vivo. E questa presa di coscienza mi irrita moltissimo, perché è sintomo di una sensibilità non condivisa che tragicamente conduce a un lassismo generale che – addirittura – dilaga tra gli stessi artisti del genere teatral-musicale, tanto in Italia quanto all’estero. Ma fortunatamente al giorno d’oggi esistono molti operatori – soprattutto in Italia – in totale controtendenza.
…e poi c’è il Cirque Éloize, in questo periodo in tournée con Cirkopolis, uno spettacolo che va oltre il circo, sventagliando un’infinità di altre emozioni ed espressività. Nonché unico nel vostro portfolio. Come mai?
Per quanto riguarda questo specifico genere performativo che – come ha giustamente detto – va ben oltre il circo, ritengo che Cirkopolis sia uno dei pochissimi spettacoli nel circuito attuale a sostenere il livello di qualità necessario. A ciò si aggiunge la difficoltà dell’ensemble di essere riconosciuto e apprezzato opportunamente per quello che vale. In particolare, nel caso del Cirque Éloize: questa compagnia, infatti, inizialmente acquistata dal Cirque du Soleil e curatrice di alcuni suoi spettacoli, ha poi deciso di ritrovare l’indipendenza per conservare la propria natura “teatrale”, intesa dal punto di vista tanto fisico quanto performativo. Quella del Cirque Éloize è senza dubbio una compagnia “adulta”, che ha sicuramente optato per la strada più difficoltosa in vista della propria affermazione, ma ciononostante ha saputo e sa dimostrare un altissimo grado di raffinatezza e sensibilità che il teatro di oggi anela fortemente.
Dunque ritiene che l’etimologia della parola “Éloize” che, secondo la lingua delle Mgdalen Islands, significa “lampo di calore all’orizzonte”, sia azzeccata?
Sì, direi che descriva perfettamente la compagnia e il messaggio che suole esprimere in ogni spettacolo.
Dulcis in fundo, una domanda di rito: quali novità sono previste per l’anno corrente o anche per il prossimo?
Di certo la più importante novità da dichiarare riguarda il Blue Man Group, un trio di percussionisti statunitensi, che lo scorso anno ha festeggiato i suoi primi 25 anni di carriera in una New York City dipinta di blu per l’occasione. Inoltre, sono lieto di annunciare una fervente distribuzione di produzioni italiane, presenti nel nostro portfolio, oltreoceano, in particolare nello Stato del Messico. Perché è altrettanto importante esportare i talenti nostrani!
Marco Argentina
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