La perfezione è un’idea astratta che tutti vogliono raggiungere. Nel caso del danzatore, il perfezionismo è qualcosa di innato e motivante, un tributo fisico ed emotivo a una forma d’arte che richiede a chi la pratica di passare ore davanti agli specchi in vista di un ideale irraggiungibile.
Se il perfezionismo diventa eccessivo, può trasformarsi nella rovina del danzatore e nell’allontanamento dal vero senso della danza.
La ‘sindrome dell’anatra’ è un detto coniato all’Università di Stanford per descrivere l’atteggiamento di alcuni studenti che, seppur essendo stressati e carichi di impegni accademici, nascondono la fatica e si mostrano sereni e positivi.
Anche le anatre in apparenza scivolano sull’acqua con grazia e senza fatica, ma in realtà agitano freneticamente le zampe per mantenersi a galla e contrastare le correnti.
Così fa il ballerino che deve lavorare duramente senza però dare l’impressione di sforzarsi e senza mostrare la fatica.
Non è solo una questione psicologica, ma anche fisica. Soprattutto nella danza classica, i tentativi di ottenere la linea perfetta possono danneggiare il corpo del danzatore che impone posizioni innaturali ad anche, colonna vertebrale e piedi.
I ballerini d’altro canto godono di un’eccezionale propriocezione, la consapevolezza della posizione del corpo e del suo posto nello spazio. Controllano il loro aspetto nei minimi dettagli, notano piccoli cambiamenti invisibili agli osservatori esterni, ma evidenti a chi passa ore a danzare davanti allo specchio.
La danza infatti insegna a individuare anche i difetti minimi e a fissarsi su di essi finché non vengono corretti. Non è così sbagliato, anzi, può essere un punto di forza e di crescita personale.
C’è una soddisfazione nel chiedere sempre di più a se stessi, e c’è un’illusione di controllo nel correggere sistematicamente gli errori. Ma c’è una bella differenza tra disciplina che genera perfezionismo adattativo e il perfezionismo distruttivo.
La prima è ammirevole, permette di puntare a standard elevati e di avvicinarsi al loro raggiungimento, ma non è rigida nei suoi obiettivi. Se qualcosa non funziona, ci si torna sopra in un secondo momento, oppure si accetta che, per ragioni che sfuggono al controllo del ballerino, non funzionerà mai e si cercano alternative per bypassare quel limite.
Nel perfezionismo distruttivo invece i ballerini si concentrano solo sui fallimenti e vedono i successi come privi di valore. Tutto ciò è stressante, può rendere la danza insopportabile e spingere ad abbandonarla. O la perfezione o niente.
Se diventa ossessione, quindi il perfezionismo mina il corpo e la mente del danzatore.
I confini tra disciplina e perfezionismo distruttivo sono spesso labili e confusi. I ballerini avvertono un’enorme pressione a danzare nonostante il dolore e l’infortunio, sono disposti a fare qualsiasi sacrificio se questo li porterà più vicini all’ideale del danzatore perfetto.
E ben vengano i sacrifici se aiutano a vincere le proprie insicurezze, a diventare più forti e più sicuri di sé. Se però sono finalizzati a un ideale irraggiungibile, diventano inutili e dannosi.
La perfezione infatti è un ‘orizzonte che svanisce man mano che ci si avvicina’ e la danza, quella vera, lo sa e lo spiega molto bene ogni volta che il danzatore entra in sala. Ed è lì la sua importanza e la sua bellezza.
La danza è sfida positiva, è uno sprone, un percorso che conduce a conoscersi, a imparare ad apprezzarsi e a volersi più bene.
Stefania Napoli
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