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Pablo Girolami: “L’arte, se è onesta, è sempre uno specchio”

 

Coreografo, performer e fondatore della compagnia House of IVONA, Pablo Girolami continua a spingere i confini della danza contemporanea verso territori emotivi, sensoriali e concettuali inesplorati. Con T.R.I.P.O.F.O.B.I.A (The end), nuova tappa di un progetto avviato con la creazione omonima, Girolami affronta una paura primordiale — quella dei buchi, delle cavità, dell’informe — trasformandola in un’esperienza coreografica che interroga il corpo, il controllo e le nostre reazioni viscerali. A seguire, in “Non Stop Ecstatic Dancing”, si presenta in una veste inedita: quella di live performer musicale, attivando il pubblico attraverso un flusso continuo di suono, gesto e presenza. Un viaggio che va dalla repulsione alla trance collettiva, in cui l’arte diventa spazio di trasformazione.

Il titolo del Suo ultimo lavoro, T.R.I.P.O.F.O.B.I.A (The end) ‒ che sarà presentato il 27 giugno 2025 al Festival Nutida, insieme a Non Stop Ecstatic Dancing ‒ fa riferimento a una paura molto specifica, quella della tripofobia. Il concept richiama uno “scheletro tripofobico” costruito attraverso la geometria e attivato dall’immaginazione. Come ha tradotto questa complessa visione concettuale in movimento e gesto scenico?

Non ho voluto rappresentare letteralmente la tripofobia. È stato, piuttosto, un punto di partenza, visivo e suggestivo. Ci siamo ispirati a immagini legate a questa fobia, come il rospo del Suriname, il fiore di loto quando è in seme o un alveare. Da lì, la ricerca si è spostata su una domanda più ampia: cosa significa la paura per noi esseri umani? Come affrontiamo le nostre paure? Quali sono i nostri coping mechanisms, e quali strategie di sopravvivenza mettiamo in atto di fronte a paure che spesso sono totalmente irrazionali? In certi casi, questi meccanismi sono persino più assurdi e distorti della paura stessa. È su queste contraddizioni che abbiamo lavorato. La tripofobia, nel lavoro, non è solo evocata: si manifesta sul corpo degli interpreti durante lo spettacolo. Ma non posso dire troppo… non voglio svelare tutto in anticipo.

C’è un riferimento diretto al corpo come terreno di insicurezze, paura e trasformazione. Come ha lavorato con i danzatori per far emergere queste tensioni corporee?

Non solo il corpo è terreno di insicurezza: anche gli oggetti che utilizziamo in scena creano instabilità fisica e psicologica. Il lavoro è partito dall’osservazione della nostra risposta somatica alla paura. Ci siamo chiesti: quali sono le reazioni fisiologiche quando l’essere umano prova paura? Come si manifesta questa sensazione nel corpo? E come reagiamo a queste percezioni interne? Poi c’è un concetto che ci ha guidati: se non è amore, è paura. Il paradosso, o il legame, tra amore e paura ‒ con sé stessi e con l’altro ‒ è qualcosa che abbiamo esplorato, perché la paura è spesso connessa a un’idea di controllo. E perdere il controllo è una delle forme più intense di paura.

Questo progetto sembra oscillare tra l’attrazione per il disgusto e la necessità di affrontarlo. Pensa che l’arte possa essere un mezzo efficace per esorcizzare le nostre paure più profonde?

Credo di sì. L’arte, se è onesta, è sempre uno specchio: riflette l’esistenza e la vita dell’artista che la crea. Guardarsi nello specchio con sincerità e senza giudizio ‒ quasi in orizzontalità ‒non so se aiuti a superare una paura, ma permette almeno di prenderne coscienza. E questo è già un primo passo importante.

In “Non Stop Ecstatic Dancing” Lei si presenta come live performer musicale, un ruolo meno consueto per un coreografo. Com’è nata l’esigenza o il desiderio di esplorare il suono in prima persona?

Come dicevo prima, il tema del controllo è centrale nel mio lavoro. Ho sempre sentito il desiderio di coreografare la musica, di avere un ruolo attivo anche in quello che accade sonoramente durante una performance. Per questo motivo, nelle mie ultime produzioni ho iniziato a entrare in scena come DJ live — sempre nascosto in regia, ma presente. Non solo per dare un input ai danzatori, ma anche perché la musica potesse rispondere, in tempo reale, a quello che accade sul palco. C’è una forma di spontaneità che nasce in questo dialogo, ed è una dimensione che mi stimola molto. Tutto è nato nel 2022 durante una residenza di ricerca in Portogallo, dove ho avuto la fortuna di avvicinarmi all’arte del DJing. Da allora, è diventata una parte importante del mio processo creativo: passo molto tempo a sperimentare, a divertirmi, a creare loop infiniti e ipnotici.

Nel titolo si legge una spinta verso la liberazione, l’estasi, il movimento continuo. Che tipo di esperienza vuole innescare nello spettatore?

Non è una domanda che mi pongo mai davvero come artista. Mi viene in mente una frase di Nicolás Ballario: Nell’arte contemporanea non c’è niente da capire, non dà mai risposte, ma pone dubbi. Ecco, mi riconosco molto in questo.

Vi è una connessione tra l’universo oscuro e introspettivo di “T.R.I.P.O.F.O.B.I.A” e la dimensione più pulsante ed estroversa di “Non Stop Ecstatic Dancing”?

Non direi che esiste un legame diretto, almeno non dal punto di vista concettuale. Tuttavia, il concetto di loop, molto presente nei miei DJ set, può certamente evocare un universo ipnotico, talvolta quasi onirico o inquieto. Un loop infinito potrebbe ricordare la struttura di un incubo ‒ anche se, a dire il vero, i miei set sono piuttosto solari. C’è invece un legame forte con la pratica quotidiana della mia compagnia IVONA. Il modo in cui iniziamo le giornate, il nostro riscaldamento, il processo di costruzione del movimento: tutto parte spesso dalla musica elettronica, dal beat, dal ritmo. È una fonte viva di ispirazione, non solo per il tono emotivo, ma proprio per la struttura del movimento che ne deriva.

Nel suo percorso artistico, come si è evoluto il suo rapporto con il corpo come strumento espressivo? Ci sono stati momenti o esperienze chiave che hanno segnato questa evoluzione?

Credo che il corpo sia, già in sé, un linguaggio. Non solo nel mio percorso artistico, ma in quello umano. L’espressività corporea è qualcosa di istintivo, organico, quasi scontato. Ciò che ha davvero trasformato il mio rapporto con il corpo è stato l’osservare la natura — in particolare gli animali. Studiando i loro atteggiamenti, le posture, i modi in cui comunicano, mi sono reso conto che non è solo il corpo umano a possedere un potenziale espressivo, ma ogni forma di vita. Questa consapevolezza mi ha spinto ad “alienizzare” il corpo umano, forse anche per una certa noia nei confronti della sua semplicità. Sono affascinato dalle forme, dai colori, dalla bellezza e dalla stranezza della natura. Questo sguardo mi accompagna e alimenta il mio desiderio di trasformare continuamente il corpo in scena.

Può raccontarci qualcosa del Suo lavoro con House of IVONA e come questa realtà contribuisce a definire la Sua identità artistica?

House of IVONA è nata per un bisogno di autonomia. All’inizio, volevo semplicemente potermi autoprodurre e sostenere i lavori della compagnia IVONA. Ma nel tempo è diventata una vera e propria casa, un ecosistema creativo che oggi produce anche altri artisti e progetti multidisciplinari. Organizziamo un festival internazionale di danza contemporanea a Fagagna, il nostro piccolo borgo in Friuli-Venezia Giulia, e portiamo avanti progetti legati al territorio e alla comunità con molti laboratori per diversi tipi di pubblico. La parola chiave per noi è resilienza. Crediamo che l’arte sia uno dei più forti testimoni della capacità dell’essere umano di resistere e trasformarsi. Vogliamo proteggere e celebrare questa resistenza, anche nella sua dimensione più fragile. IVONA ha anche un’identità fortemente inclusiva, plasmata in gran parte da artisti LGBTQIA+. Questo aspetto contribuisce in modo sostanziale alla ricchezza e alla complessità della nostra visione artistica.

Come vede il futuro della danza contemporanea in Italia, e quali sfide o opportunità crede che emergeranno nei prossimi anni?

È una domanda difficile, perché oggi lavorare in questo settore in Italia non è semplice. C’è tanta precarietà, mancano spesso visioni strutturate e prospettive chiare di crescita. A volte è difficile anche mantenere la fiducia nel percorso. Eppure, credo che la danza – come l’arte in generale – abbia un ruolo fondamentale come testimonianza della resilienza del nostro popolo.

Ha qualche consiglio per giovani coreografi e performer che vogliono esplorare temi forti e complessi attraverso il corpo e la danza?

Il consiglio più sincero che posso dare è: pensate a voi stessi. Nel senso più puro del termine: ascoltatevi, seguite l’urgenza autentica di esplorare quello che vi muove davvero. Fatelo con sincerità, con onestà, senza preoccuparvi del giudizio degli altri. Mettete anima, corpo e testa nella vostra ricerca. Se serve, chiudetevi in una stanza e domandatevi ‒ non solo con la mente, ma con il corpo e le sensazioni ‒ cosa voglio fare davvero? Per me, il punto di partenza è sempre lì: nel contatto con qualcosa di vero. E da lì, tutto può succedere.

Lorena Coppola

Photo Credits: Pablo Girolami – Davide Comandù

© Riproduzione riservata

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