Coreografo, danzatore e mente sensibile alle sfumature dell’animo umano, Roberto Tedesco è una delle voci più interessanti della nuova scena coreutica italiana. Formatosi al Balletto di Toscana, dopo anni di esperienza come interprete in importanti compagnie, tra cui l’Aterballetto, dal 2021 ha scelto di dedicarsi interamente alla coreografia come artista freelance, portando avanti una ricerca personale, profonda e sempre più riconoscibile. I suoi lavori sono attraversati da un’urgenza autentica: quella di esplorare le dinamiche dell’identità, della relazione e della memoria, con un linguaggio coreografico che unisce rigore e vulnerabilità. Tra i suoi titoli più recenti: “We Are Our Roots”, un’indagine sul concetto di appartenenza e trasmissione culturale; “Rebecca”, una riflessione potente sulla resilienza e sull’espressione del dolore; “Simbiosi”, un intenso confronto psicologico a due, che mette in discussione l’ideale romantico della fusione totale.
Nel Suo percorso artistico ha collaborato con alcuni dei nomi più importanti della danza contemporanea. C’è un incontro o un’esperienza in particolare che ha rappresentato una svolta significativa nella sua crescita?
Ho avuto la fortuna di lavorare per dieci anni in una compagnia importante come Aterballetto. Gli anni trascorsi lì sono stati fondamentali per la mia crescita, non solo artistica ma anche personale. Ho vissuto in prima persona il passaggio da Aterballetto come compagnia d’autore, legata alla direzione di Mauro Bigonzetti e a un repertorio composto quasi esclusivamente dalle sue creazioni, a una nuova fase sotto la direzione di Cristina Bozzolini. Cristina è una figura centrale nella mia storia. Era già stata la mia direttrice al Balletto di Toscana, ed è stata proprio lei a offrirmi il mio primo contratto di lavoro come stagista. Devo a lei, davvero, gran parte della mia carriera. Quando sono arrivato a Firenze, a 17 anni, dalla Calabria, con alle spalle solo studi in una scuola privata e senza una preparazione accademica completa, Cristina ha visto qualcosa in me. Ha creduto nel mio potenziale, mi ha dato tempo, fiducia e opportunità. Dopo appena due anni, mi ha portato in una compagnia importante come Aterballetto. Mi sento estremamente fortunato: ero nel posto giusto al momento giusto e ho incontrato la persona che ha cambiato il mio destino professionale. Credo di poter dire, senza esitazione, che Aterballetto rappresenta il punto di riferimento per la danza contemporanea in Italia, e averci lavorato è stato per me un grande privilegio. Non riesco a individuare un singolo incontro che abbia segnato una svolta netta nella mia carriera, ma se devo citarne uno, sicuramente è stato proprio l’incontro con Cristina. Lei ha visto oltre la mia inesperienza, ha creduto in me quando ero ancora acerbo, con tanto da imparare, e ha reso possibile tutto il percorso che è venuto dopo. Durante gli anni in compagnia, in particolare nel passaggio da un repertorio d’autore a uno molto più variegato, che richiedeva ai danzatori grande versatilità, ho capito qualcosa di me: forse non ero “specifico” in nulla, non avevo uno stile o un coreografo in cui mi sentissi davvero a casa. Ma proprio grazie al lavoro, all’impegno quotidiano, ho imparato ad adattarmi. Mi considero un danzatore versatile, capace di affrontare diversi linguaggi coreografici, anche se non ho mai sentito di appartenere completamente a uno solo. Ecco, se c’è una parola che sintetizza il mio percorso, forse è proprio “versatilità”. Ma tutto è iniziato da un gesto di fiducia. E quel gesto è stato di Cristina.
Prima di intraprendere la carriera da freelancer, ha danzato in prestigiose compagnie, come Aterballetto. Qual è l’eredità più profonda che porta con sé da queste esperienze?
Danzare in Aterballetto, negli anni in cui ho fatto parte della compagnia, ha significato arricchire enormemente il mio bagaglio artistico. Ho attraversato un’infinità di esperienze, visioni, influenze, gusti diversi. Ho danzato repertori estremamente eterogenei, confrontandomi con una varietà di linguaggi che hanno lasciato un’impronta profonda nel mio corpo e nella mia memoria fisica. Oggi, come coreografo, il mio obiettivo principale è quello di sviluppare un linguaggio coreografico che sia il più possibile personale, riconoscibile, autentico. Cerco una mia identità stilistica chiara, che non richiami troppo ciò che già esiste o che ho già danzato. Naturalmente siamo nel 2025, e inventare qualcosa di completamente nuovo è quasi impossibile, ma continuo a pormi come obiettivo quello di proporre in scena un linguaggio del movimento che sia il più peculiare possibile. Può sembrare una sfida complessa, considerando tutte le influenze che ho accumulato negli anni come danzatore. Ma, in realtà, credo che proprio quel bagaglio, così ricco e stratificato, sia una risorsa fondamentale. La conoscenza e la consapevolezza del mio corpo – che ha attraversato tanti stili e tecniche – mi aiutano nei momenti in cui creo nuovo materiale. Quando mi immergo nella ricerca fisica, riesco spesso a riconoscere se sto andando verso qualcosa che il mio corpo “conosce già”, un linguaggio che ho già abitato. E grazie a quella consapevolezza, posso scegliere di deviare, di allontanarmi consapevolmente da ciò che rischia di suonare familiare, per non ripetermi, per non somigliare. In questo senso, tutto ciò che ho vissuto in Aterballetto non è un limite, ma una bussola. È ciò che mi permette di orientarmi con più lucidità nella mia ricerca creativa.
Quando ha compreso che la coreografia sarebbe diventata il fulcro della Sua espressione creativa?
È difficile individuare un momento preciso in cui ho capito che volevo diventare coreografo. Fin da bambino mi sono sempre sentito una persona creativa, con una fantasia vivace. Ma è stato durante i miei primi anni in Aterballetto che ho avuto l’occasione concreta di mettere alla prova questa parte di me. All’epoca, sotto la direzione di Cristina Bozzolini, esisteva una serata dedicata ai giovani coreografi, in cui i danzatori della compagnia avevano la possibilità di cimentarsi nella creazione coreografica. Le performance si svolgevano in sede, alla Fonderia. Nei primi anni non mi sentivo pronto: ero giovane, forse ancora insicuro, e ho preferito osservare da lontano. Poi, verso la mia terza o quarta stagione – avevo circa 22 anni – ho deciso di provarci. Ho coreografato su alcuni miei colleghi, anche loro danzatori della compagnia. È stato un primo esperimento, con poco tempo a disposizione, tra pari, senza un reale spazio di approfondimento, ma comunque stimolante. Era diverso da quando in compagnia arrivava un coreografo esterno: lì si creava un’altra attenzione, un altro tipo di energia. Ma per me, in quel momento, era importante iniziare a mettermi in gioco. Per qualche anno ho partecipato a questa serata. Poi, con il cambio di direzione, quell’occasione è venuta meno. È stato allora che ho preso davvero la decisione di continuare a creare, a prescindere da un contesto “ufficiale”. Ero ancora un danzatore della compagnia, ma sentivo che dovevo fare questo passo. Così ho iniziato a cercare giovani danzatori e studenti curiosi di lavorare con me, forse attratti anche dal fatto che facevo parte di Aterballetto. Loro mi hanno dato fiducia, attenzione, disponibilità. E in quella generosità io ho trovato uno spazio per sperimentare, per trasmettere qualcosa, per capire cosa volessi dire attraverso il movimento. In quei momenti fuori orario, quasi clandestini, è nata la mia vera urgenza creativa. Non c’era un obiettivo preciso, non c’erano spettacoli in programma. Solo il desiderio di provare, di cercare, di costruire qualcosa di mio. E credo che proprio in quegli ultimi anni da danzatore in compagnia, attraverso questi incontri spontanei e profondi, sia maturata in me la consapevolezza che la coreografia non fosse solo una curiosità, ma una necessità. Poi, al mio decimo anno in compagnia, sono arrivate le prime vere opportunità esterne: inviti da compagnie in Germania, premi, possibilità concrete di lavorare come coreografo. A quel punto mi sono trovato davanti a una scelta: continuare con l’undicesimo, dodicesimo anno in Aterballetto, o prendere il rischio e seguire questo nuovo percorso che stava iniziando a delinearsi. Ho scelto di rischiare. Ho lasciato un posto sicuro, uno stipendio fisso, una reputazione costruita in dieci anni di lavoro, per inseguire un altro sogno. Sentivo di aver realizzato quello di diventare danzatore. Ora era il momento di provare a realizzare l’altro: diventare coreografo. E per farlo, dovevo prendermi le mie responsabilità, uscire dalla mia zona di comfort e iniziare davvero a provarci. Nel 2021 ho danzato il mio ultimo spettacolo con Aterballetto. Da allora non mi sono mai fermato. Lavoro come coreografo freelance, portando avanti la mia ricerca, tra nuove esperienze, incontri e sfide. È un percorso che continua a evolversi, ma che nasce da un’esigenza autentica, coltivata nel tempo, in silenzio, fino a diventare oggi la mia direzione.
Come descriverebbe l’evoluzione del suo linguaggio coreografico nel corso del tempo?
Per me, il linguaggio coreografico è probabilmente l’aspetto più importante del mio lavoro come coreografo. Non mi considero una persona intellettuale e non sento il bisogno di mettere in scena qualcosa di concettualmente complesso. Sono, prima di tutto, un grande appassionato del movimento. Ciò che mi interessa davvero è suscitare emozioni, toccare qualcosa di profondo che possa risuonare intimamente in chi guarda. Mi piace pensare che lo spettatore, anche senza strumenti tecnici o conoscenze specifiche, possa ritrovare dentro di sé un frammento di ciò che vede in scena, qualcosa che appartenga anche alla sua vita, al suo vissuto. In questi primi cinque anni di lavoro coreografico, il mio focus è stato proprio questo: costruire un vocabolario di movimento personale, riconoscibile, che progetto dopo progetto potesse ampliarsi, arricchirsi, maturare. Questo processo non è avvenuto da solo, e molto lo devo ai danzatori con cui ho avuto la fortuna di collaborare. Ogni esperienza condivisa in sala ha contribuito a far emergere nuove possibilità, nuove sfumature, anche quando io partivo da un’idea precisa, da una struttura molto definita. In particolare, una figura fondamentale in questo percorso è Laila Lovino. È una danzatrice che lavora con me sin dal mio primo progetto indipendente, e da allora è stata presente in quasi tutti i lavori che ho creato. Laila è stata – ed è tuttora – una compagna di viaggio importantissima nella costruzione di questo linguaggio. Il suo corpo, la sua sensibilità, la sua disponibilità alla ricerca hanno permesso di definire, esplorare e raffinare quel vocabolario che oggi sento sempre più mio. Ma che, allo stesso tempo, riconosco essere anche profondamente suo. Credo sia proprio questa affinità tra il mio pensiero coreografico e il suo modo di danzare a rendere così naturale e potente il nostro dialogo in sala. Non sono un grande fan della coreografia costruita su me stesso. Preferisco avere davanti altri corpi, osservarli, ascoltarli, guidarli, metterli alla prova. Credo molto nell’intelligenza fisica del danzatore e nel valore della collaborazione. Ed è anche grazie a relazioni come quella con Laila che sto riuscendo a dare forma – passo dopo passo – a un linguaggio che sento autentico, personale e in continua evoluzione.
Tre dei suoi lavori più recenti ‒ We Are Our Roots, Rebecca e Simbiosi – inaugureranno l’edizione 2025 del Festival Nutida. Opere diverse, ma unite da un filo conduttore comune: quale?
Ho il privilegio e la grande fortuna di inaugurare questa edizione del Festival Nutida e questo per me è davvero un onore. Inizialmente il Festival mi ha commissionato un assolo, che ha poi preso il titolo di Rebecca, creato per la danzatrice Rebecca Intermite. Successivamente ho proposto di portare anche We Are Our Roots, un lavoro che non era ancora mai andato in scena e che debutterà in anteprima proprio al Nutida, che indaga il concetto di appartenenza e trasmissione culturale. A quel punto, visto che erano già due i lavori in programma, ho proposto di completare la serata con un terzo pezzo: Simbiosi, che porto in tournée già dal 2023, presentato in vari festival e contesti. L’idea di costruire una sorta di “serata d’autore” è piaciuta molto alla direzione artistica del festival e io ne sono davvero felice. Mi sento, ovviamente, anche investito di una grande responsabilità, ma non vedo l’ora che arrivi il debutto per vedere tutto prendere forma. Mettere in scena questi tre lavori insieme è molto significativo per me, perché – pur nelle loro differenze – condividono un filo conduttore che li unisce profondamente. Il tema dell’identità, nelle sue molteplici sfumature, è sicuramente al centro di tutti e tre i pezzi: l’identità personale, quella familiare, quella che si costruisce nella relazione con l’altro. Si parla di legami, di emozioni, di vulnerabilità. Sono lavori che affondano le radici nell’intimo, nelle pieghe della mente e dell’esperienza. Non in senso concettuale o intellettuale, ma piuttosto psicologico, emotivo. Non mi definisco un artista concettuale. Non cerco mai di mettere in scena idee astratte o troppo complesse. Quello che mi interessa è raccontare qualcosa di vero, che possa toccare chiunque: storie, dinamiche e sentimenti che ci riguardano tutti, che fanno parte della quotidianità, del vissuto personale o di quello delle persone intorno a noi. Credo che sia proprio questa sincerità – nel modo in cui questi temi si traducono in movimento – a collegare We Are Our Roots, Rebecca e Simbiosi. Tre lavori diversi, ma che parlano la stessa lingua: quella delle emozioni vissute, riconosciute, condivise.
We Are Our Roots affronta il tema dell’identità e delle origini. Lei ha dichiarato: Non tutto ciò che ci insegnano le nostre radici è necessariamente significativo o positivo. Come si traduce questa ambivalenza nella costruzione coreografica?
Tenevo a precisare che le radici, in realtà, non sempre ci aiutano o ci hanno aiutato nella vita. Per esempio, io provengo da una famiglia “alla Mulino Bianco”, dove non ho mai respirato problemi, tensioni o traumi significativi. Quindi, pensando alle mie radici, al luogo e alla famiglia da cui vengo, mi vengono in mente solo cose positive. Tuttavia, vicino a me ci sono persone che non sono state altrettanto fortunate riguardo alle loro origini, al loro passato o anche alla situazione familiare attuale, da adulti. Per questo motivo, non volevo limitarmi a raccontare solo la mia esperienza, ma volevo considerare anche quelle situazioni in cui le proprie radici hanno causato, o stanno causando, difficoltà nell’essere adulti e indipendenti, portando con sé ferite o problematiche del passato. Mi sembrava importante sottolinearlo. La danza che propongo è assolutamente astratta. Quindi, come si traduce questa ambivalenza nella costruzione coreografica? Potrei dire che, in realtà, non si traduce direttamente. O forse che spero che, attraverso l’astrattezza del corpo e delle azioni nello spazio, lo spettatore possa sentire e fare proprio ciò che gli interpreti comunicano. Che possa in qualche modo ritrovarsi nella tematica che affrontiamo, pur essendo un pezzo prevalentemente astratto. Ci sono sicuramente immagini e scenari evocativi che rimandano al tema, ma non in modo eccessivamente descrittivo o narrativo. Nella coreografia non mi interessa raccontare tutto in modo esplicito o far vedere esattamente ciò che io vedo o penso. Mi piace invece l’idea che ciascuno, nel pubblico, possa interpretare liberamente ciò che vede e portare con sé una propria esperienza personale.
In Rebecca, esplora il tema della resilienza. In che modo ha costruito questo viaggio attraverso la forza e la fragilità?
Rebecca è una potente riflessione sulla resilienza e sull’espressione del dolore. Tuttavia, con il mio assolo, danzato da Rebecca Intermite, ho cercato di esplorare l’esatto opposto di questo concetto. Oggi si parla spesso di resilienza, di superamento dei traumi, di andare avanti nonostante le difficoltà. Il cuore di questo assolo, invece, è raccontare una donna che non ha paura di riconoscere il proprio limite. Una persona che comprende di non farcela da sola e che, proprio per questo, sceglie di chiedere aiuto. Un gesto che troppo spesso viene frainteso come debolezza, quando in realtà è un atto di grande consapevolezza e forza. Rebecca mette in scena questo momento: il coraggio di non nascondere la fragilità, di non vergognarsi nel chiedere una mano. E forse, proprio in questo, risiede una forma diversa – e necessaria – di resistenza.
In Simbiosi, mette in discussione l’idea romantica di fusione totale tra due individui. Il lavoro ha un forte impianto psicologico: come ha elaborato la dinamica coreografica a partire da questo nucleo tematico?
In Simbiosi emerge un duetto profondamente psicologico, che mette in discussione l’idea romantica della fusione totale tra due persone. Inizialmente credevo che “essere in simbiosi” avesse una connotazione positiva, quasi ideale. Tuttavia, approfondendo il tema, ho scoperto che molti psicologi considerano la relazione simbiotica come qualcosa di malsano: un legame in cui uno dei due tende a predominare, mentre l’altro si annulla, perdendo la propria identità, una condizione malsana che danneggia l’individualità e ostacola la crescita personale. Questa dimensione più oscura e ambigua della simbiosi mi ha profondamente colpito e affascinata. È da questa riflessione che ho deciso di costruire “Simbiosi”, con l’intento di portare in scena non l’ideale romantico della fusione, ma il rischio concreto di perdersi nell’altro, di dissolversi in una relazione che più che nutrire, finisce per annullare, invece di nutrire. Il mio approfondimento parte proprio dalla necessità di spostare la visione della simbiosi da un’idea positiva e romantica a una visione più critica e consapevole. Questo aspetto della simbiosi è stato il cuore del mio lavoro. Per raccontarlo, ho cercato di mettere in scena una relazione che si sviluppa nel corso di un’intera vita, suddividendola in fasi. Si parte dall’incontro, un colpo di fulmine casuale, un amore a prima vista; si passa poi alla decisione condivisa di intraprendere un viaggio insieme, un cammino percorso all’unisono. Successivamente si arriva a una stabilità nella relazione, a un’intimità profonda, che mi piace sintetizzare con una frase – tratta da una canzone di cui non ricordo più l’autore – che dice: “non aver più paura dei propri cattivi odori”, a indicare la confidenza e l’accettazione totale. Ma poi arriva un momento cruciale: la persona succube nella coppia si rende conto che qualcosa non va, che qualche ingranaggio si è inceppato. È qui che subentra la dipendenza affettiva, che ci tiene prigionieri. Nonostante la consapevolezza di un problema evidente e di una relazione malsana, la paura di perdere l’altro, da cui si dipende emotivamente, ci impedisce di prendere le decisioni necessarie per salvarci. Con questa coreografia di mezz’ora, ho voluto mettere in scena e rendere visibili queste fasi di una relazione complessa che dura una vita intera, portando lo spettatore a riflettere su questo delicato equilibrio tra legame, identità e dipendenza.
Ritiene che oggi, nella danza, ci sia maggiore spazio per raccontare la vulnerabilità e il bisogno di aiuto?
Ultimamente, attraverso la danza, diverse realtà pongono l’attenzione sulla vulnerabilità, portando in luce persone che hanno bisogno di aiuto: disabili, anziani, soggetti più fragili. La danza sta diventando un mezzo accessibile anche a queste persone, e questo è un aspetto estremamente positivo, con cui mi trovo assolutamente d’accordo: la danza deve essere per tutti. Personalmente, mi piace inserire nelle mie coreografie e nei miei spettacoli tematiche che siano davvero quotidiane e riconoscibili da chiunque. La vulnerabilità e il bisogno di aiuto sono esperienze che, credo, tutti abbiamo vissuto almeno una volta nella vita. Per questo ritengo importante che la danza parli anche di questo, perché rappresenta una parte autentica dell’essere umano.
Il Suo lavoro sembra muoversi costantemente tra l’esplorazione personale e la riflessione sociale. Come riesce a bilanciare intimità e universalità nei suoi pezzi?
Come ho già detto, a me interessa portare in scena il quotidiano, la mia esperienza e ciò che mi circonda. Penso che la riflessione sociale sia strettamente legata all’esplorazione personale, nel senso che, a livello individuale, siamo inevitabilmente influenzati da ciò che accade nella società. Probabilmente, quindi, uno è la conseguenza dell’altro e non sono due aspetti da considerare separatamente. In sostanza, fanno parte dello stesso vissuto: ciò che avviene nella società si riflette nel vissuto di ciascun individuo. È come parlare, in fondo, della stessa realtà vista da prospettive diverse.
Cosa spera che il pubblico porti con sé dopo aver assistito a una sua creazione?
Spero che il pubblico, guardando un mio pezzo, possa cogliere ciò che sta vedendo: l’emozione, la suggestione, la riflessione, qualsiasi tipo di sentimento. Spero che possa prenderlo, proiettarlo dentro di sé, nel proprio vissuto, e farlo davvero suo. Che possa sentirsi complice di ciò che sta guardando, o al contrario contrariato; che si senta vicino o distante, infastidito o incuriosito. Il mio desiderio è che ciò che propongo non rimanga solo un’esperienza estetica e superficiale. Spero che tutto ciò che metto in scena – ciò che gli interpreti emanano – riesca a oltrepassare lo spazio tra il palcoscenico e la prima fila, per andare a invadere i pensieri, le riflessioni e i sentimenti delle persone. Vorrei che le tematiche affrontate nei miei spettacoli si proiettassero nel vissuto di ciascuno, in modi diversi: positivi, negativi, critici. Non cerco solo emozioni positive; a volte anche infastidire il pubblico è un risultato importante. L’obiettivo principale è non lasciare nessuno indifferente.
Lorena Coppola
Photo Credits: Stefano Sanno – Serena Vinzio
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